Stefano Rodotà, il 29 novembre 2010, durante l’Internet Governance Forum Italia, propose di inserire nella Costituzione un articolo “21-bis”, che recitava: Tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale. Una proposta forte, avanzata in tempi non sospetti, che andava a creare addirittura un nuovo diritto sociale in capo ai cittadini. Una proposta che avrebbe fatto nascere in capo allo Stato un obbligo finanziario importante. Ma ha ancora senso parlare oggi di una proposta da tempo accantonata? Soprattutto ora che anche i bambini hanno i tablet e ogni italiano sembra così interconnesso?
Purtroppo sì. Può apparire strano, ma il problema del digital divide non è stato ancora risolto e, anzi, oggi sembra ancora più pressante. Partiamo dalle basi: nel 2001 l’OECD ha definito con il termine digital divide il gap tra individui, nuclei familiari, business e aree geografiche a livelli socio-economici differenti riguardo all’accesso a internet. Quando si parla di accesso, il primo significato che ci viene in mente è la concreta disponibilità di un computer, un telefono o qualsiasi strumento digitale. In realtà, il problema non è solo la disponibilità fisica di una connessione, ma la qualità della stessa.
L’ultima Relazione Nazionale del DESI (Digital Economy and Society Index) colloca l’Italia al terzultimo posto fra i 28 Stati membri dell’UE. Il confronto con le prime della classe è impietoso: addirittura il 17% degli italiani non ha mai utilizzato internet (quasi il doppio della media UE), il capitale umano (italiani con competenze digitali basilari) è il più basso d’Europa e la copertura a banda larga veloce e la diffusione del suo utilizzo sono molto inferiori alla media europea. Dati empirici provano che chi possiede il collegamento a banda larga veloce è definibile come un “utente forte”, sempre connesso, produttore di contenuti.
Gli altri, beh, sono un po’ sfigati. E come ogni sfigato che si rispetti, anche quello poco rapido e sempre disconnesso verrà emarginato. In una società in cui l’accesso a internet è diventato essenziale per il successo economico e per nuove opportunità di formazione, per l’istruzione, la socializzazione e per l’accesso ai servizi statali, il digital divide diventa pericoloso. Ci troviamo dunque di fronte a una gerarchizzazione sociale e politica di natura elettronica: un’élite di connessi e una moltitudine di sconnessi.
Infatti, a originare il digital divide è spesso e volentieri l’urban-rural divide: l’ancora sempre attuale divario tra città e provincia, metropoli e campagna, Nord e Sud Italia. Nelle zone rurali spesso non si hanno le stesse infrastrutture reperibili nelle zone urbane, e soprattutto non c’è mai la stessa velocità di banda. Il rapporto BES Istat 2021 ha già indicato che l’8% degli alunni, perlopiù appartenenti a famiglie svantaggiate, è rimasto escluso dalle attività scolastiche nel corso della pandemia Covid-19; un dato che sale al 23% se si considerano gli studenti disabili. La quota dei ragazzi tra 6 e 17 anni che non ha un computer o un tablet personale aumenta nel Mezzogiorno fino a raggiungere un quinto dei ragazzi nella stessa fascia d’età.
A essere marginalizzate, dunque, sono le fasce già marginalizzate. Che sorpresa. Le fasce di coloro che più degli altri avrebbero bisogno di strumenti e possibilità maggiori. Facevamo prima riferimento al basso capitale umano: il digital divide non riguarda solo infrastrutture e qualità, ma anche il set di competenze digitali necessarie per fruire degli strumenti tecnologici. Il grado di alfabetizzazione digitale in Italia è disastroso: secondo stime ufficiali, tre italiani su dieci non utilizzano ancora internet abitualmente e più della metà della popolazione non possiede competenze digitali di base. A essere più inattivi sono i soggetti già esclusi e disoccupati, come le donne del Sud Italia e gli anziani.
Si parla di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione e dell’utilizzo di internet in campo politico – dal voto online alle piattaforme deliberative – quando ancora mezza Italia è troppo povera, emarginata o distante dai centri urbani per poter partecipare. Altro che accoglimento di istanze inclusive e democratiche. Non si tratta di una situazione risolvibile solo con superbonus e tablet regalati alle scuole: è, come sempre, una problematica molto più grande, strutturale. I divari che spaccano l’Italia da decenni si sono semplicemente riversati nel campo digitale, e come potevano non farlo? Ci si aspettava che i contadini tirassero router fuori dalla terra assieme alle patate?
L’accesso e l’uguaglianza digitale sono diventati dei valori universali e inderogabili, a prescindere dalla loro formalizzazione all’interno della Costituzione. La banda larga potrebbe asciugare le distanze tra remoti e vicini, azzerare le differenze d’età, livellare le diverse condizioni sociali. Dare la possibilità a tutti di avere una chance, di partecipare al dibattito democratico, di formarsi, di arricchire la società della propria voce. Invece, i dati sul digital divide ci dicono il contrario. Internet, da strumento capace di correggere asimmetrie sociali e territoriali, sta funzionando all’inverso, generando nuove diseguaglianze e dilatando ancora di più le differenze.