Se c’è un concetto che non risulta chiaro intorno alla discussione sul clima è che la necessità di contenere le emissioni non è una manovra imposta di cui non sempre si comprendono le ragioni. Si tratta di una necessità tangibile e imminente che deve provenire dall’alto quanto dal basso perché solo la cooperazione – quella tra Paesi e quella tra governi e cittadini – può ottenere qualche risultato. Giunti alla fine di quest’anno, e per iniziare quello nuovo con maggiore consapevolezza, è arrivato il momento di tirare le somme e capire com’è stata gestita l’emergenza climatica nel 2022. Una piccola anticipazione: male.
Il sesto rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico chiarisce inequivocabilmente l’aumento della temperatura media globale. Se, infatti, quando si parla di global warming si fa spesso l’errore di considerare brevi periodi di tempo e zone circoscritte, il report IPCC confronta la temperatura media globale di due differenti decenni. Quella relativa al periodo tra il 2011 e il 2020 è superiore di 1,09 gradi centigradi a quella relativa al periodo tra il 1890 e il 1900. Per quanto riguarda il clima nel 2022, invece, l’Organizzazione meteorologica mondiale ha stimato un aumento di 1,15 gradi rispetto alla temperatura media preindustriale. Secondo questi dati, dunque, quanto stabilito dall’Accordo di Parigi sembra già difficilmente raggiungibile a causa della spropositata quantità di anidride carbonica presente nell’atmosfera.
Ogni anno, infatti, invece di diminuire, le emissioni medie aumentano dell’1,1%. I dati raccolti ed elaborati dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente non lasciano spazio a dubbi e chiariscono quanto gli obiettivi teoricamente condivisi di diminuire le emissioni stiano fallendo. In media, nel solo 2022 ogni abitante della Terra ha emesso 6,3 tonnellate di anidride carbonica. Si tratta di dati non rappresentativi delle responsabilità di ogni individuo però, perché si registrano enormi differenze tra gli abitanti di diverse nazioni. Basti pensare che il 75% delle emissioni è responsabilità dei Paesi del G20.
Ogni nostra azione quotidiana genera emissioni di cui non abbiamo realmente contezza. Siamo abituati a pensare che solo alcune delle attività che svolgiamo emettano CO2, come utilizzare mezzi di trasporto, sistemi di riscaldamento o raffreddamento dell’aria, utilizzare strumenti che sfruttano grandi quantità di energia. Tutte azioni che svolgiamo in prima persona e a cui associamo un effetto. Difficilmente ci chiediamo quante emissioni comporti la produzione di oggetti che compriamo o di cui ci serviamo. Raramente ci chiediamo quanta CO2 abbia prodotto la carne che consumiamo. E tendiamo a non limitare il consumo di questi prodotti perché crediamo che le emissioni che non vediamo con i nostri occhi non esistano. Eppure, sono 15 miliardi le tonnellate di CO2 da tagliare entro il 2030 se vogliamo – e dobbiamo – rispettare l’Accordo di Parigi.
I dati sul clima nel 2022 ci ricordano che non c’è più tempo da perdere. Quest’anno, in Gran Bretagna sono stati raggiunti per la prima volta nella storia i 40 gradi. In Africa Orientale, c’è stato un calo delle precipitazioni per quattro stagioni umide consecutive, dando luogo alla siccità più lunga mai vista in quarant’anni di registrazioni da parte dell’Organizzazione meteorologica mondiale. Nella prima metà dell’anno, le persone che hanno affrontato una crisi alimentare dovuta alla siccità e ai disastri causati dai fenomeni atmosferici estremi sono state tra i 18,4 e i 19,3 milioni. Per non parlare nel numero, incalcolabile, delle persone morte a causa di inondazioni, frane, uragani e tutti gli altri eventi atmosferici incontrollabili che si sono presentati nell’arco di questo 2022.
Se, però, tutti i fenomeni illustrati fino a ora non hanno, nella percezione comune, un rapporto di causa ed effetto con l’aumento della temperatura media globale, ciò che meglio rappresenta in termini numerici il riscaldamento globale è l’innalzamento del livello dei mari. Più la temperatura aumenta, più i ghiacciai si sciolgono. E se anche in luoghi in cui regna il gelo la temperatura inizia a scaldarsi, il cambiamento climatico inizia a diventare impossibile da ignorare.
La fusione delle calotte polari è la principale responsabile di questo fenomeno. La calotta della Groenlandia ha perso massa per ventisei anni consecutivi. Addirittura, in quella zona, a settembre ha piovuto invece di nevicare. Durante il corso degli ultimi trent’anni, il livello dei mari si è innalzato di 3,4 millimetri l’anno. Si tratta, però, anche in questo caso, di un valore medio poiché il ritmo è raddoppiato nell’ultimo decennio. Tra il 2013 e il 2022 si sono registrati 4,4 millimetri annui e nel corso della prima metà del 2022 si è addirittura arrivati a 5 millimetri. Un dato che chiarisce l’aumento incontrollato del riscaldamento globale e l’incapacità dei governi mondiali di contenerlo.
All’interno di questo enorme disastro, si può effettuare un’osservazione ravvicinata della situazione italiana nel 2022. Il rapporto dell’Osservatorio Città Clima di quest’anno registra un aumento del 27% degli eventi atmosferici estremi rispetto al 2021. Dal 2010 a oggi se ne sono registrati 1533, che hanno causato 279 vittime. L’Italia, però, sebbene la sua posizione geografica e la morfologia del territorio la espongano a numerosi danni, non dispone di un piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici. Esiste solo una bozza, ferma dal 2018, che non ha mai trovato seguito e che risparmierebbe, se fosse messa in pratica, il 75% delle risorse destinate alla riparazione dei danni, per non parlare delle vite umane.
Ma in Italia, come d’altronde in gran parte dei Paesi industrializzati, non esiste una vera e propria volontà di rimediare al cambiamento climatico. L’inconcludenza delle trattative della recente Cop27 lo conferma. Se il clima nel 2022 ha visto un innegabile peggioramento della situazione, altrettanto evidente è l’incapacità di prendere provvedimenti e porre un freno ai danni. È incomprensibile come la sopravvivenza di milioni di persone, forse dell’intera specie umana, sia inevitabilmente subordinata alle logiche di un mercato incosciente che preferisce investire risorse nella produzione, invece che nell’ecologia. Chissà quando questa consapevolezza ci raggiungerà, forse quando sarà ormai troppo tardi.