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I “Quaderni del carcere” di Antonio Gramsci: una lettura (pt.6)

Redazione di Redazione
25 Febbraio 2022
in Rubriche
Tempo di lettura: 3 minuti
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Piedigrotta dal Primo Quaderno

La teorizzazione di Strapaese ha ucciso strapaese. L’idea repressiva di stabilire dei parametri a tutto il folklore trasforma lo stesso folklore in qualcosa di stantio e macchiettistico: sforzo simbolo di ogni epoca grigia, dove non si ride più, ma si sogghigna. Non si è profondi, ma arguti e veloci. La fonte della Piedigrotta si è essiccata, perché ha perso la spontaneità, mutando gli stessi canzonieri in funzionari. Una sorta di “ufficialità” per la stessa canzone napoletana che, di per sé, non può essere mai ufficiale.

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Realismo e sentimentalismo, triturati dai cambiamenti radicali di gusto, non hanno più i codici per innescare emozioni. Entrare nelle sabbie mobili di questo grigiore, per tentare di dare corpo e voce a sentimenti invece geneticamente scomposti, significa sparirvi dentro senza rimedio: una inutile inutilità. Non c’è più la potenzialità narrativa e poetica, come substrato indispensabile alla creazione.

L’imprevedibilità popolare non può essere certo codificata in stereotipi borghesi. Ed è questo il motivo per cui si è imposto al folklore di diventare “stranezza”, che si nutre di ridicolaggine pittoresca e ripetitiva.

Il distacco tra cultura moderna e cultura popolare segna, più di ogni altra cosa, il tentativo di rendere alieno e servizievole il gusto del popolo. Invece è nel superamento, nell’abbattere con rispetto e amore questa barriera, che le Masse trovano la loro legittimazione. Non nel catalogare fenomeni come bizzarri che, tra l’altro, spesso non sono catalogabili. Bisogna, invece, studiarlo come il modo di concepire il mondo di determinati strati della società. Visioni della realtà non elaborate, perché l’elaborazione non è prerogativa del popolo. Molteplici, perché non sintetizzabili in categorie classiche. Sovrapposte, perché frutto di stratificazione meccaniche dovute alla successione del tempo.

Così il folklore non diventa materia astratta e omologante, ma riflesso e comprensione delle condizioni di vita di un popolo, anche quando queste condizioni mutano, ma lasciano attiva una scia di contaminazione nei comportamenti e nel sentire. Solo così uno Stato laico è capace di avere e di diffondere una concezione della vita: è un suo compito e un suo dovere. Chiaro che si entra in conflitto con credenze e gusti popolari, ma conoscendole, si lavora alla formazione intellettuale e morale delle nuove generazioni, senza pretendere che esse partano da una tabula rasa culturale e nemmeno tentare di triturale nel conformismo clerico-militare.

Un lavoro di questo genere, in profondità, corrisponderebbe intellettualmente a ciò che è stata la Riforma nei paesi protestanti.

Un Gramsci quasi veggente nell’individuare le strategie fasciste del nostro oggi: appiattimento, intorpidimento, distruzione delle culture popolari o loro ghettizzazione attraverso il frullatore della omologazione, creazione di bisogni di mero consumo e distruzione dei sogni. La società del piccolo schermo, in poche parole. Sembra quasi che Gramsci già individui i funzionari del nulla del Grande Fratello, incubo di un gusto popolare portato ai massimi livelli di alienazione.

La morale e il costume sono strettamente connessi, così come la superstizione alla religione, ma intesa nel suo senso più ampio di credenze popolari. Creano dei sottili imperativi non facilmente scalfibili. Il folklore ingloba al suo interno troppe cose insieme per poter essere ignorato in ogni tentativo di conoscere la società. Perché ne è parte integrante, anche se a volte subdola. Soprattutto in paesi cattolici o ortodossi il mix di intrecci è un labirinto. Però sradicare la parte malata della superstizione è conoscerla. Entrare in concorrenza con determinati fenomeni per poi isolarli, rispetto alle più squisite prerogative del gusto popolare che, anzi, vanno a determinare identità e cultura.

Il folklore è cosa molto seria: basti pensare che credenze perlopiù pagane sono transitate indenni attraverso secoli e religioni, per arrivare intatte ai giorni nostri. Intatte nella sostanza, ma non nella forma che, di volta in volta, ha assunto il volto conforme all’epoca.

Contributo a cura di Luca Musella

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