Il nostro ruolo non è quello di essere per o contro; è di girare la penna nella piaga. – Albert Londres
È così che il 23 settembre 1985 Giancarlo Siani è morto, girando la penna nella piaga. Aveva appena compiuto ventisei anni, abbastanza da capire come funzionasse il mondo, pochi per essere costretto a lasciarlo. Quella sera il giovane giornalista era di ritorno a casa, nel quartiere Vomero di Napoli, a bordo della sua indimenticabile Citroën Méhari con capote in tela, l’automobile oggi simbolo dell’ennesima vittima innocente di mafia. L’autunno cambiava i colori alla città. Professionista serio e indefesso, Giancarlo era curioso, forse troppo, tanto da portare la camorra a imbracciare le armi e a metterlo a tacere con circa dieci colpi alla testa. Erano le 20:50. Anche l’inchiesta stava cambiando.
Giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia; il resto è propaganda. Il suo compito è additare ciò che è nascosto, dare testimonianza e, pertanto, essere molesto. – Horacio Verbitsky
Lo sapeva bene Siani: giornalismo era la sua costante attività di denuncia, il non fermarsi mai, quell’andare oltre la dichiarazione, oltre la notizia, oltre lo scoop, oltre la mera prima pagina. Oltre, fino alla verità. Fino alla scoperta dei rapporti tra i politici locali e la criminalità organizzata in merito all’assegnazione degli appalti pubblici per la ricostruzione delle aree coinvolte nel terremoto dell’Irpinia del 1980. Fino a quel pezzo pubblicato il 10 giugno del suo ultimo anno di vita che gli valse come condanna di morte. Il prezzo pagato dai Nuvoletta per giungere ad una pace con Bardellino: scrisse così parlando dell’arresto del noto boss Valentino Gionta, sostenendo che fosse stato il clan Nuvoletta a fare una “soffiata” alle forze dell’ordine e, quindi, rischiando di incrinare i suoi rapporti con Cosa Nostra (di cui la famiglia campana era l’unico esponente non siciliano). Un affronto difficile da perdonare, impossibile da ignorare. Ad agosto, infatti, era già tutto deciso: l’articolista doveva morire.
Sasà: Visto quanto è bravo il cane mio? Fa il cane e io faccio il padrone. Io sono il padrone del cane… e così è pure con gli uomini, Giancarlo, ci stanno i cani e ci stanno i padroni. Tu vuoi fare il cane o il padrone?
Giancarlo: Nessuno dei due, io voglio fare il giornalista.
Sasà: E lo sapevo che mi dicevi questo! E magari vuoi fare pure il giornalista giornalista, no? No, perché anche qua ci stanno due categorie: ci stanno i giornalisti giornalisti e i giornalisti impiegati. Io in verità ho scelto la seconda categoria e devo dire che non mi trovo male. Sì, tengo la macchina, tengo la casa, tengo l’assistente sanitaria e tengo pure il cane… perché i giornalisti giornalisti sono tutta un’altra cosa, Giancarlo. Quelli portano le notizie, gli scoop e non sempre si devono aspettare gli applausi della redazione. No, perché le notizie e gli scoop sono una rottura di cazzo… fanno male, fanno malissimo e allora, se ti posso dare un consiglio, stai a sentire Sasà: l’inchiesta che stai facendo, io non ne voglio sapere niente. Dai retta a me, questo non è un paese da giornalisti giornalisti, è un paese da giornalisti impiegati.
Ebbene sì, Siani era giornalista giornalista e da tale quella sera di poco più di trent’anni fa è stato ammazzato. Sognava un contratto da professionista, sognava di cambiare questo mondo raccontandolo. Non gli è stato permesso. Non glielo permetterebbero neppure oggi.
Tante volte avere il tesserino, che sia da pubblicista o da professionista, non fa di una persona un giornalista, nel senso che sovente ci si imbatte in pennivendoli sgrammaticati amanti del denaro e della notorietà facile. Essere Giornalista è qualcosa di altro. È sentire l’ingiustizia del mondo sulla propria pelle, è schierarsi dalla parte della verità, è denuncia, è ricerca, è curiosità, è approfondimento, è sentirsi troppe volte ahimè spalle al muro, emarginato. Essere Giornalista significa farsi amica la paura e continuare sulla propria strada perché raccontando si diventa scomodi a qualcuno. Le parole, mi è sempre stato detto, feriscono più di mille lame, pungolano le coscienze, sono inviti alla riflessione e alla lotta, teoria che diviene prassi quotidiana di esercizio della libertà. Ma le parole possono, anche, se usate in maniera “criminale”, passare dei messaggi sbagliati, costruire luoghi comuni difficili da abbattere, discriminare, incitare all’odio, creare dei “diversi” da sbattere in prima pagina come il male assoluto, rendendo le nostre società sempre meno inclusive, transennate dal filo spinato dell’ignoranza e del razzismo.
Per noi, che gli vogliamo dedicare il nostro lavoro, che lo facciamo nello stesso difficile territorio da lui abitato, che abbiamo scelto di restare per rimuovere quel filo spinato e girare la penna nella piaga, per noi che, prendendo in prestito una celebre canzone dei 99 Posse, ci definiamo Anguille, Siani non ha mai smesso di scrivere e professionista lo era già, anche senza contratto. Il potere non ci ha vinto.
Giancarlo era una straordinaria Anguilla.