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Delocalizzare le prigioni significa calpestare la dignità dei detenuti

Giusy Santella di Giusy Santella
12 Aprile 2022
in Attualità
Tempo di lettura: 4 minuti
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Abbiamo sentito parlare spesso di delocalizzazioni delle aziende portate avanti per fini economici, ma finora raramente abbiamo dovuto parlare di delocalizzazioni di prigioni e, dunque, di prigionieri, come se fossero suppellettili da spostare da un luogo all’altro senza alcuna ripercussione. E se ci sembra grave trasferire un’impresa soltanto per mero tornaconto, per approfittare della manodopera a basso costo e dei conseguenti minori oneri, ci sembra ancora più grave e vergognoso delocalizzare quello che dovrebbe essere un percorso detentivo e dunque di rieducazione come ha deciso di fare il governo danese.

Pochi mesi fa, infatti, la Danimarca ha siglato un accordo con il quale è stato stabilito che, a partire dal 2023, trecento detenuti – condannati in maniera definitiva – dovranno scontare la propria pena in Kosovo, dietro pagamento di una cospicua somma di denaro attraverso cui la Danimarca si libera dai più immediati compiti legati alla detenzione di tali reclusi e, a suo dire, alleggerisce il sistema carcerario, molto sovraffollato. Che sia davvero questa la soluzione? Una disumanizzazione della pena che risponde esclusivamente alle logiche privatistiche del profitto e non tiene in nessun conto le persone recluse e il loro percorso detentivo?

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Noi crediamo che siano innumerevoli le modalità per liberarsi della piaga del sovraffollamento, che affligge il sistema penitenziario italiano ma anche quello di moltissimi Paesi europei e non, prima tra tutte un ripensamento del modo di intendere la pena, che non sia più sopruso, punizione, tortura. Più volte, parlando delle prigioni private, in particolare americane, abbiamo messo in luce come le logiche tipiche del mercato capitalistico comportino, per i luoghi di detenzione, un abbassamento drastico della qualità della vita e una mercificazione della vita dei detenuti.

Attualmente, inoltre, molti aspetti dell’accordo intercorso tra Danimarca e Kosovo non sono chiari, a partire dalle modalità di gestione delle prigioni: come farà il governo danese a mantenere la responsabilità sull’esecuzione della pena a migliaia di chilometri di distanza? E, soprattutto, di che nazionalità saranno gli operatori che dovranno farsi carico del percorso detentivo?

Un simile accordo pone una lunga serie di interrogativi e perplessità, poiché non tiene in nessun conto l’aspetto umano: i detenuti coinvolti saranno costretti a trasferirsi lontano dalle proprie case e dai propri affetti, che non potranno sicuramente incontrare, trovandosi in un luogo del quale non conoscono la lingua e nell’impossibilità di attuare qualsiasi percorso di risocializzazione che sia degno di chiamarsi tale. Dovrebbe quindi sorprenderci il cinismo e la freddezza con cui lo stesso Ministro della Giustizia danese ha parlato di tale scelta, ammettendo candidamente che le visite saranno complicate, ma che la loro possibilità teorica permane.

Un simile accordo calpesta la dignità delle persone detenute, e i più basilari principi umani e di diritto. La Danimarca, infatti, fa parte dell’UE e del Consiglio d’Europa e ha inoltre aderito alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e alla Convenzione dell’ONU per la prevenzione della tortura, oltre che alle Nelson Mandela Rules, che stabiliscono espressamente il diritto dei detenuti a comunicare con le proprie famiglie e i propri cari a intervalli regolari, essendo assegnati a prigioni che siano il più vicino possibile alle proprie case e ai luoghi di riabilitazione sociale.

Ricordiamo infatti che si tratta di un principio che caratterizza le regole europee e anche quelle del nostro ordinamento, dove è noto come principio di territorialità della pena. Disponendo il trasferimento lontano dai propri cari o dalla propria casa solo laddove tale scelta risponde al maggior benessere della persona detenuta, si persegue una precisa finalità: mitigare dal punto di vista umano gli effetti negativi della detenzione, che sarebbero sicuramente esacerbati da una condizione di solitudine.

Non è la prima volta che uno Stato europeo decide di delocalizzare le proprie prigioni, anche se finora era accaduto solo tra Paesi che presentavano un ordinamento omogeneo: un accordo simile era stato siglato tra Belgio e Paesi Bassi nel 2010 e poi tra Norvegia e Paesi Bassi nel 2015, tuttavia per far fronte, in entrambi i casi, a situazioni provvisorie e trasferendo nuovamente i detenuti al venir meno della contingenza che aveva sollecitato l’accordo. Inoltre, tutto è avvenuto con il controllo del Consiglio d’Europa e del Comitato per la prevenzione della tortura. Non vogliamo con questo sminuire la prassi portata avanti già allora, ma soltanto sottolineare come in questo caso non sarebbe in alcun modo possibile vigilare su eventuali violazioni di diritti e abusi perpetrati poiché l’ordinamento del Kosovo sfugge alle forme di controllo tipicamente europee.

Avallare tali pratiche significa correre il rischio che altri Paesi svendano le proprie garanzie costituzionali trasferendo i detenuti delle loro prigioni in Stati senza scrupoli, utilizzando la scusa del sovraffollamento, a cui – lo ripetiamo – si può rispondere in modi decisamente più umani e dignitosi di questo.

I detenuti si troverebbero così in un non luogo, privati delle più basilari garanzie e dei diritti umani. È necessario l’intervento delle istituzioni internazionali per evitare che tale accordo, e altri simili, siano applicati e che abbia luogo l’ennesima disumanizzazione delle persone private della libertà personale.

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