ClubHouse, il social network in cui si usa solo la voce, è un unicorno. Ha raggiunto alla fine di gennaio la valutazione societaria di un miliardo di dollari, mentre i server dell’applicazione toccavano quota due milioni di utenti attivi al mese. Ad attrarre una migrazione di massa verso l’app sono state le frequenti incursioni di personaggi prominenti del panorama tech, primo fra tutti Elon Musk: l’uomo più ricco del mondo – sulla scia degli eventi legati a Gamestop e r/WallStreetBets – aveva designato proprio ClubHouse come piattaforma per fare due chiacchiere con il CEO di RobinHood, finito nell’occhio del ciclone per la decisione della società di sospendere la vendita delle azioni di Gamestop sull’applicazione. Ora, Musk ha esteso un invito per un incontro vocale su ClubHouse persino a Putin e lo ha fatto dalla sua altra piattaforma d’elezione: Twitter.
Il successo di ClubHouse, però, non è solo frutto di un passaparola illustre. Tra i milioni di utenti che frequentano le stanze della piattaforma sono in tantissimi a manifestare entusiasmo per questa nuova e, per certi versi, audace forma di social networking. Prima di soffermarsi sui perché di questo entusiasmo tutt’altro che ingiustificato, è bene ponderare un paio di questioni. Anzitutto, accompagna la crescita esponenziale del social network in Italia un’aspra critica alla sua fumosa e lacunosa privacy policy. I dati degli utenti vengono trattati secondo la legge della California, più permissiva della attuale GDPR Europea. Per questo motivo, il Garante della Privacy italiano ha scritto alla piattaforma pretendendo dei chiarimenti. A preoccupare sono principalmente il fatto che, per poter invitare gli amici, bisogna condividere con l’app l’intera rubrica contatti, rendendo palesi e ricostruibili i rapporti tra le persone dentro e fuori dalla piattaforma, e il fatto che non sono ancora note le modalità di stoccaggio e cancellazione dei dati dai server di ClubHouse.
Il social network è basato su un sistema apparentemente elitario. Il suo stesso nome richiama alla mente una ristretta tavola rotonda, un circolo aperto solo per i membri, un rifugio per simili. Contribuisce ad applicarle questa patina di segretezza anche la modalità d’iscrizione. All’app si può accedere solamente su invito e, in questa fase di beta pubblica, solamente se si è in possesso di un dispositivo mobile Apple (i vertici della tech company hanno già annunciato un futuro lancio per Android). Accaparrarsi un invito per entrare sull’app vuol dire vedere gratificata la parte di noi che vuole sentirsi unica, quel nostro ego digitale desiderante e curioso che dal desiderio e dalla curiosità si lascia virtualmente definire. Sapere di condividere lo stesso spazio virtuale, lo stesso modello di smartphone e forse pure qualche minuto del tempo di una celebrità innesca un meccanismo che ci nutre del riflesso di quella fama. Certo, anche le altre piattaforme social si avvalgono e vengono utilizzate da personaggi noti: la differenza, su ClubHouse, è la modalità d’interazione. Siamo abituati a fruire contenuti di altri o a crearne a nostra volta. A turno, passivi o attivi. Il contenuto creato, a ogni modo, resta nel flusso dei feed (solo) per qualche ora e finisce archiviato, questa volta potenzialmente per sempre, nella memoria sconfinata della rete. Il fruitore può scegliere se consumare o ignorare quel contenuto, attratto e distratto dalle decine di migliaia di altri contenuti sfavillanti che attraversano il suo campo visivo alla velocità dello scroll. Fruitore e creator son legati da un rapporto di co-dipendenza, dove chi consuma viene a sua volta consumato: traducendosi in numero l’uno, in intrattenimento l’altro.
Su ClubHouse, invece, il contenuto non arriva agli utenti già confezionato e pronto da fruire: è sempre in divenire perché viene creato insieme. Non è un caso che sul social manchino quasi del tutto le cosiddette Vanity Metrics: like, cuoricini, statistiche d’interazione. Subire la fascinazione della piattaforma è facile perché, riducendo il testo e le immagini al minimo indispensabile, rovescia il nostro modo di tradurre il mondo in fotogrammi virtuali. La dimensione sonora ha una doppia funzione, un doppio pregio: ci riporta alla dimensione ancestrale della narrazione orale che regola lo scambio comunicativo sulle frequenze dell’ascolto e della fiducia. Privi di maschere, riscopriamo nella voce dell’altro uno strumento che rassicura, informa ed emoziona, che si tradisce e rivela molto più di quanto non facciano le nostre immagini zeppe di filtri. La voce accomuna, la dimensione orale cancella le distanze. Questa è la vera e più pregnante differenza con la cacofonia di parlato-scritto che usiamo sugli altri social network.
Alla base del modello social di ClubHouse ci sono le Rooms, le Stanze, suddivise in base agli argomenti. A gestire la Stanza sono i Moderatori: ciascuno ha un suo “stile” e può scegliere se adottare un approccio più rigido – ad esempio, lasciare la parola esclusivamente alle autorità di settore invitate nella Stanza, come in un podcast o in un programma radiofonico – o più fluido, permettendo a chiunque abbia voglia di condividere la propria esperienza od opinione su un argomento di intervenire come speaker. A loro è affidato il compito di mantenere vivace la conversazione, di gestire gli interventi per alzata di mano dal pubblico e, anche, di agire da filtro contro eventuali incursioni di troll o di hater.
A queste ultime, del resto, la piattaforma minaccia d’essere particolarmente sensibile: proprio perché il contenuto è orale e in real-time (dunque volatile), tenere a bada commenti d’odio e agende politiche razziste può rivelarsi complicato. Ci sono già state, ad esempio, manifestazioni di antisemitismo più o meno velato in alcune Room statunitensi. D’altro canto, la rapida ascesa di ClubHouse in Cina ci mette di fronte al fatto che non sono quasi mai gli strumenti del web di per se stessi a generare il rigurgito d’odio. Nel Paese asiatico, il social è stato per qualche settimana oasi felice oltre la censura di regime e ha permesso agli utenti dell’app di confrontarsi apertamente su questioni tabù come Taiwan, Hong Kong e i campi di prigionia per Uighur. Per settimane gli inviti per ClubHouse hanno costituito un vero e proprio mercato online sui vari spin-off del colosso Alibaba, arrivando a costare fino a settanta dollari.
Certo, ci sarebbe da domandarsi se il confronto, per dirsi veramente democratico, possa basarsi su un’esclusività fondata sulla facoltà economica all’accesso. Sicuramente, il grande entusiasmo con cui tantissimi potenti si approcciano a questo nuovo mezzo di comunicazione reitera l’annosa questione di quale ruolo giochino nel contesto di oggi i media tradizionali, i quali si riducono sempre più spesso a porsi fra il polo di un’informazione flash, cruda, riportata dai social e il polo del giornalismo d’opinione, del pezzo narrativo ed emozionale destinato a intrattenere. Nel frattempo, Twitter e Facebook hanno lasciato intendere di stare implementando un servizio simile sulle proprie piattaforme. A quanto pare, la nuova battaglia tech per gli spazi virtuali si giocherà tutta sulla colonizzazione della voce.