È un concetto strano, complicato, difficile da afferrare. Conformità di voleri, essere d’accordo, dice Treccani. Inestricabile nebulosa impossibile da decifrare, dice l’opinione pubblica. Il consenso è il concetto – evidentemente molto più astratto di quanto crediamo – alla base del reciproco rispetto, delle relazioni sane, dei rapporti onesti. Eppure, fin troppo spesso, esso diventa, più che la discriminante, uno strano e inspiegabile alibi per chiunque commetta violenze sessuali. Se la sua assenza è ciò che decreta violenze e abusi, se è il consenso che chiarisce cos’è uno stupro, nelle aule di tribunale è la sua presunta scarsa chiarezza a scagionare, incredibilmente, i predatori dei nostri tempi.
La cronaca, quando ripetitiva e schematica come quella degli episodi di abusi sessuali, diventa facilmente rappresentativa di tutte le disfunzioni della nostra società, anche a partire da un singolo caso. Questa volta, è in esame una sentenza della Corte d’Appello che ha recentemente scagionato un condannato in primo grado per violenza sessuale, non tanto grazie a una difficile definizione di consenso, quanto a causa del completo fraintendimento del suo significato, un equivoco che proprio non ci si aspetta da parte di precisi e preparati uomini di legge.
La sentenza della Corte d’Appello di Torino è, in realtà, poco chiara e poco attendibile in molte delle sue parti. Ma di tutte le incredibili dichiarazioni contenute in un testo che definisce sbronza la vittima, di scarsa qualità i pantaloni dalla cerniera strappata e invito a osare una porta socchiusa mentre si è in bagno, ciò che maggiormente dovrebbe metterci in allarme è proprio la completa alterazione, il travisamento estremo del significato di consenso. Tutta la vicenda, infatti, è incentrata sull’assenza di sobrietà della vittima, una giovane che, dopo un pomeriggio passato a bere con un ragazzo con cui aveva chiarito di non volere più di un’amicizia, è stata aggredita e violentata nel bagno di un locale poiché aveva lasciato la porta socchiusa e chiesto dei fazzoletti al suo accompagnatore, in teoria rimasto fuori di guardia.
Oltre all’assurdità della giustificazione, sulla quale non c’è neanche bisogno di soffermarsi, ci sarebbe proprio da chiedersi cosa esattamente questi giudici illuminati abbiano capito, dal momento che hanno definito una persona sbronza che probabilmente non era pienamente in sé, in grado di dirsi consenziente. Sotto effetto di sostanze alcoliche o di stupefacenti, quando non si è pienamente in sé, non si può dare consenso, non può sussistere. E dunque ci si chiede come sia possibile che qualcuno abbia decretato che quella stessa condizione, che annulla il consenso, sia proprio la giustificazione per non averlo dedotto.
Nelle discussioni riguardo le violenze sessuali, questo concetto pare sempre impossibile da definire con completa sicurezza. Si gioca sulle sfumature, su tutto ciò che sta in mezzo al sì e al no, per scagionare stupratori in ogni dove. Se la vittima non dice no, se la vittima si blocca, se la vittima ha detto no prima ma ora non si oppone, come si può essere certi della sua volontà? Ebbene, il punto è proprio questo: se non si ha la certezza di avere il consenso, non si procede, si deduce di non averlo. È la Cassazione a dirlo: in tema di violenza sessuale, il rifiuto della vittima […] si deve presumere, qualora non sussistano indici chiari e univoci che dimostrano il consenso.
Si gioca spesso sulla scarsa chiarezza, sulla difficoltà a comprendere se è un sì o un no, quando la legge – evidentemente ignorata dagli stessi detentori della giustizia – ci dice senza lasciare spazio a fraintendimenti che se il consenso non è esplicito, chiaro, inequivocabile, allora il rifiuto va presunto e l’azione interrotta. Non è il dissenso che va esplicitato, è il consenso che deve essere certo oltre ogni dubbio.
A tal proposito, si parla molto del Congresso spagnolo, che ha da poco approvato una legge che chiarisce che debba sussistere, in caso di rapporto sessuale, un’espressione che espliciti la volontà delle parti in gioco, chiarendo che il silenzio o la passività non equivalgono al consenso. Una legge che renderà più sicuro il Paese per le donne: così è stata definita, come se questo bastasse, come se l’inequivocabile chiarezza delle leggi serva a qualcosa quando le persone deputate ad applicarle le interpretano a modo proprio, di fatto rendendole vane.
Si tratta, infatti, di una legge di cui, in teoria, non dovremmo aver bisogno qui in Italia perché l’articolo 609-bis del Codice Penale chiarisce esattamente lo stesso concetto. Concetto che evidentemente si fatica a comprendere, ma non a distorcere.
Potremmo dirci che nella nostra società manchi l’educazione al rispetto reciproco, potremmo parlare a lungo di quanto l’assenza di educazione sessuale e affettiva renda difficile anche la comprensione del concetto di consenso, che invece sarebbe chiara a tutti se solo esistesse un sistema che forma i giovani e gli adulti sulla sessualità e su tutto ciò che ruota intorno a essa, rispetto del volere altrui compreso. Eppure non basta.
Non basta dirci che è solo questo il problema, perché a distorcere le indicazioni precise dei testi di legge ci vuole una precisa volontà. La volontà di ignorare il volere dell’altro, soprattutto se donna, quando contrasta con il proprio. La volontà di presumere che violare l’altro, soprattutto se donna, non sia poi così grave. La volontà di convincersi che del corpo altrui, se femminile, si può disporre. Che alla fine le piacerà. Che non ha detto proprio no. Che se l’ha detto era per fare la preziosa. E che, se pure lo pensava, appena vedrà di cosa sono capace cambierà idea.
Il concetto di consenso non è nebuloso, non è difficile da afferrare, non è strano ed equivoco. È cristallino, scritto nero su bianco, è indubbio. E per fraintenderlo è necessaria una volontà esplicita, un’architettura di giustificazioni messa su per sostenere qualcosa che, altrimenti, si vedrebbe lontano chilometri essere sbagliata.
Mi piacerebbe dire che la legge basti, che serva solo quella a rattoppare i disastri di una società fondata su millenni di usurpazione, ma non è così. Anche quando le definizioni sono chiare e la giustizia si adopera per tutelare, non c’è garanzia che ad applicarla non ci siano esseri umani in errore, cresciuti all’interno di un sistema che, automaticamente, colpevolizza e non crede alle vittime di stupro. Perché nell’Italia del ventunesimo secolo, un uomo è stato assolto dall’accusa di violenza sessuale perché la vittima era ubriaca e non era chiaro che cosa volesse, quando è proprio l’assenza di chiarezza a decretare il reato.