L’attentato ai centri massaggi di Atlanta è figlio dell’odio razziale e di genere, nonostante ci sia una certa riluttanza nell’ammetterlo. «Ha avuto una brutta giornata»: con queste parole, qualche giorno fa, il capitano Baker, cui sono state affidate le indagini per la strage avvenuta in tre diversi centri massaggi dell’area metropolitana della città, ha liquidato la tragedia. Negli attentati sono morte otto persone, sei erano donne di origine asiatica.
Delaina Ashley Yaun aveva 33 anni e si era recata alla spa per un massaggio di coppia con il marito. Xiaojie Tan era la proprietaria di uno dei centri colpiti, una donna solare, pronta alla risata, avrebbe compiuto 50 anni il giorno dopo. Daoyou Feng, di 44 anni, lavorava per Tan da pochi mesi. Paul Andre Michels, al momento della sparatoria, stava facendo dei lavori di manutenzione presso il centro massaggi: stava conservando i soldi per aprire una sua attività. Hyun Jung Grant, 51 anni, era una madre single, uccisa mentre stava lavorando. Soon Chung Park, 74 anni, era una donna energica e in salute, preparava i pasti per gli impiegati della Gold Spa. Suncha Kim aveva 69 anni e tre impieghi, compreso quello alla spa, per mantenere la famiglia. Yong Ae Yue, invece, era una massaggiatrice certificata che aveva perso il lavoro durante la pandemia. Era stata reintrodotta da poco.
La caccia all’uomo si è conclusa con il fermo di un giovane di 21 anni: ossessionato dal sesso, avrebbe dichiarato, aveva pensato di liberarsi dalle tentazioni alla fonte, ammazzandole. Il terrorista, ché se l’attentatore fosse stato un uomo con la pelle di una tonalità appena più scura questo avrebbero titolato i giornali, è stato identificato dai suoi genitori, che ne avevano perso le tracce nel 2019.
Il profilo emerso dal racconto che i media fanno di Robert A. Long sembra ripreso da una di quelle serie tv poliziesche di cui sono pieni i nostri palinsesti televisivi: appassionato di armi, Long apparteneva alla comunità evangelica della chiesa battista. Aveva cominciato a frequentare HopeQuest, una struttura per il trattamento terapeutico della dipendenza dal sesso. Tra le altre cose, organizza percorsi per curare l’omosessualità e inculcare il concetto di purezza dell’anima attraverso la pratica dell’astensione sessuale e la repressione di ogni istinto carnale. Da questo punto di vista, dipendenza dal sesso è un termine-ombrello sotto il quale ricadono azioni e pensieri considerati impuri dalla comunità. Che Long, dunque, per liberarsi dalla tentazione intendesse letteralmente uccidere l’oggetto di un provocato desiderio inquadra un problema ben più ampio, capillare e sistemico.
L’associazione diretta fra la carica sessuale femminile e la presunta minaccia ai danni di una santa e virile potestà, infatti, è di vecchia e consolidata tradizione. Tradizione, per altro, ancora oggi ben radicata e manifesta negli episodi frequentissimi di discriminazione, molestia, abuso, violenza fisica, verbale e psicologica sulle donne, che si abbatte con durezza ancor più spietata su coloro che lavorano in un ambito comunemente associato al sesso e all’esercizio del sesso come professione.
A completare il quadro di quello che la polizia tituba a chiamare chiaramente crimine d’odio è l’etnia delle vittime. Del resto, Baker, il poliziotto che ha definito l’attentato l’esito di una giornata storta, a inizio pandemia vendeva su Facebook t-shirt con scritte razziste quali virus importato dalla Chy-na (in perfetta sintonia con la propaganda razzista dell’allora Presidente Trump). I media stessi hanno cominciato a dar voce alla comunità asiatica sconvolta solamente dopo che quest’ultima ha organizzato veglie in ricordo delle vittime e marce contro le discriminazioni razziali subite con frequenza sempre maggiore dalle persone di origine cinese, tailandese, filippina, coreana.
Allo scoppio della pandemia da COVID-19, il razzismo sommerso sotto la coltre degli stereotipi che da sempre, nel mondo occidentale, raggruppano gli asiatici in un’unica massa di indistinguibili individui dagli occhi a mandorla versati nelle arti marziali e nel duro lavoro, selvaggi che si cibano di riso e carni sospette, è emerso senza vergogna in superficie. Le persone di origine asiatica vengono insultate, picchiate, molestate in strada. L’associazione Stop AAPI Hate (Fermiamo l’odio nei confronti delle persone di discendenza asiatica e delle isole del Pacifico) ha denunciato in un report che, solo negli Stati Uniti, i casi ufficiali di aggressione a sfondo razziale nel 2020 sono stati 3800. La maggior parte delle aggressioni è stata subita da donne.
Una parte consistente degli stereotipi sulle donne asiatiche ha a che fare con la sessualizzazione e con la feticizzazione. La loro rappresentazione nella cultura popolare occidentale, d’altronde, si è sempre giocata sul feticcio dell’irresistibile carica erotica, eccitante nel suo esotismo, accompagnata da un’indole docile da sottomessa. Non ci riferiamo solo al cinema mainstream, ma anche alla rappresentazione nei prodotti video destinati all’industria pornografica. A causa di questa narrazione che le dipinge come più accessibili all’uomo occidentale, il quale, a sua volta, crede di poter esercitare un diritto su di loro e sui loro corpi, le donne asiatiche sono spesso bersagli più vulnerabili all’odio xenofobo e alla discriminazione di genere. Per coloro che lavorano in certi contesti la situazione è ancora più problematica.
Anzitutto, intorno ai centri per massaggi aleggia la reputazione di luoghi promiscui – anche quando non vengono, di fatto, offerte prestazioni sessuali ai clienti – al punto che molte donne preferiscono tenere segreto il fatto che vi lavorino. Che siano sex worker o meno, le asiatiche ivi impiegate vanno soggette a un’intersezione di odii: xenofobia, sessismo, puttanofobia. Le lavoratrici del sesso dei centri per massaggi subiscono furti e molestie. Vivono una condizione di marginalità e precariato che si è aggravata con la pandemia, anche in virtù del fatto che molte di loro non hanno potuto astenersi dal lavorare poiché prive dei requisiti per l’accesso ai sussidi, mettendo così a rischio la propria salute e la propria incolumità.
Butterfly, una rete di supporto per le sex worker asiatiche e migranti che opera negli Stati Uniti e in Canada, rivela poi, che la ragione per cui molte preferiscono non denunciare le aggressioni, i furti o le molestie subite sul posto di lavoro è la seguente: hanno molto più da temere dalla polizia che non dai clienti. Spessissimo, le denunce che le lavoratrici sporgono agli agenti si trasformano in investigazioni, dossier, vessazioni, criminalizzazione delle stesse sex worker. In tantissime raccontano di essere state ricattate, minacciate, perquisite, perseguitate da membri delle forze dell’ordine. Così, hanno imparato che, per portare serenamente avanti le proprie attività, devono stare alla larga dalla polizia. A causa della barriera linguistica, vengono fraintese o pregiudicate quando interrogate; a causa dello stato di clandestinità, alcune rischiano la deportazione.
Alla barriera linguistica si deve, tra le altre cose, anche la scelta di offrire prestazioni sessuali nei centri massaggi o lavorare come escort: le alternative proposte dalla land of opportunities alle migranti asiatiche sono il lavoro in fabbrica o nei ristoranti, con turni massacranti e paghe che non permettono loro di sfamare la famiglia o pagare l’affitto, e il sex work. Scelgono, così, di lavorare nel campo del sesso perché guadagnano meglio e gli orari di lavoro non sono sfiancanti. È una scelta legittima e non meno dignitosa di altre. Mentre la discussione si sofferma sulla possibilità di incrementare i controlli delle forze dell’ordine sui centri massaggi, dunque, bisognerebbe domandarsi perché i crimini d’odio in Occidente finiscano sempre più spesso per limitare le libertà delle vittime. Bisognerebbe, inoltre, soffermarsi a riflettere su come i governi e gli organi di governo, nell’ostinarsi a marginalizzare e a delegittimare chi opera nell’ambito del sex work, contribuiscano di fatto a rendere le donne prede eternamente facili.