È quasi il 4 luglio 1985 a Hawkins, immaginaria cittadina dell’Indiana teatro del fenomeno Stranger Things, dove si preparano i festeggiamenti per la festa dell’Indipendenza. Come promesso, dopo quasi 2 anni di attesa, Netflix mette a disposizione dei propri utenti la terza stagione della sua serie di maggior successo che, solo nel primo weekend di rilascio, ha fatto aumentare il numero dei nuovi iscritti, fino a 40 milioni di utenti che hanno visto gli episodi. Le ragioni del trionfo dirompente dello show dei fratelli Duffer sono lampanti: in primis, l’effetto nostalgia da anni Ottanta che fa da traino al pubblico quarantenne, ma non solo. La forza della scrittura dei personaggi ha fatto in modo che anche le generazioni più giovani si appassionassero alle vicende dei quattro irresistibili nerd Mike, Will, Lucas e Dustin, accompagnati da Undi – diminutivo di Undici –, la ragazzina dagli incredibili poteri telecinetici, sfuggita ai laboratori governativi in cui la tenevano prigioniera per esperimenti, e divenuta deus ex machina o, meglio, arma risolutiva nel fronteggiare le minacce soprannaturali che i protagonisti si trovano davanti a ogni stagione.
Le storie di Stranger Things, oltre che di tanto cinema anni Ottanta, (da E.T. a I Goonies, solo per dirne due, comunque molto Spielberg sia regista che produttore), sono palesemente debitrici di moltissima narrativa di Stephen King, a partire dai caratteri di cui è composto lo stesso logo della serie, che richiama terribilmente quelli delle vecchie copertine dei libri del Re, ma soprattutto per ciò che riguarda le tematiche: la ragazzina dotata di straordinari poteri mentali, perseguitata dagli agenti del governo – come nel romanzo L’incendiaria da cui fu tratto il film con Drew Barrymore nel 1984 – e, non ultima, la capacità unica con la quale lo scrittore del Maine riesce a trasmettere la magia di cui sono permeati gli eventi che si vivono in quella particolare stagione della vita compresa tra gli 11 e i 13-14 anni. Senza dimenticare il senso di solidarietà che si viene a creare in un gruppo di adolescenti che si trovano a essere dei cosiddetti perdenti, ovvero impopolari a scuola, ma accomunati da grandi passioni che ne definiscono le esistenze: in questo caso, i giochi di ruolo (Dungeons and dragons), i videogiochi, i film fantastici e di fantascienza.
Già nella prima stagione dello show, i fratelli Duffer riescono a frullare efficacemente queste tematiche tipicamente kinghiane, nonché spielberghiane, in una trama che diventa una costante citazione di tutto l’immaginario pop degli anni Ottanta (film, canzoni, videogames, serie tv, marche, pubblicità). Nonostante il carattere sfacciatamente derivativo dell’operazione, proprio il continuo riferirsi a un universo culturale ben presente nei ricordi della gente ne costituisce il carattere vincente perché ogni elemento citazionistico si inserisce organicamente all’interno delle vicenda e interagisce con essa in modo quasi mai banale e senza prendere il sopravvento. A questo aggiungiamo, come abbiamo già accennato, la scrittura di personaggi credibili e accattivanti, che maturano psicologicamente in concomitanza con la serie e ai quali è molto facile affezionarsi. Il gioco è quasi fatto.
L’altra intuizione di Stranger Things è poi il Sottosopra, la dimensione nascosta, versione negativa della nostra realtà, che si trova a un passo da noi ma non è percepibile perché vibra su frequenze diverse dalla nostra materia. Nulla di originale certo, ma il modo in cui tale dimensione viene rappresentata visivamente nella serie, le modalità con cui influisce sul mondo che conosciamo e sulle vite dei personaggi, nonché gli echi lovecraftiani che riesce a suscitare, danno allo show una dimensione da orrore cosmico degna dello scrittore di Providence, ma anche del miglior Carpenter d’annata.
La seconda stagione amplia ulteriormente la mitologia della prima con l’introduzione del Mind-Flayer (letteralmente scuoiatore di menti), immensa entità mostruosa, debitrice ovviamente dei Grandi Antichi lovecraftiani e abitante del Sottosopra composto di pura energia negativa, che riesce a penetrare nel nostro mondo tramite la mente del giovane Will e a farsi quasi aprire la porta che lo condurrà da noi. Complici alcuni stupidi scienziati e militari umani, convinti di sfruttare a proprio vantaggio gli orrori e le meraviglie del Sottosopra. Alla fine ci pensa Undici – interpretata dalla sempre intensa Millie Bobby Brown – a rimettere le cose a posto e chiudere la porta.
In quest’ultima stagione, invece, il Mind-Flayer vuole nuovamente cercare di entrare nel nostro mondo, ma stavolta alla grande: non solo prende possesso delle menti di molti umani che rende suoi schiavi, ma fonde i loro corpi in un unico mostruoso abominio dalle gambe aracnoidi, simile all’aspetto “astrale” – intravisto nella seconda stagione – che aveva nel Sottosopra, tramite il quale può agire fisicamente nel nostro mondo. Nel modo in cui si comportano gli umani posseduti dal Mind-Flayer è impossibile non ravvisare un omaggio all’Invasione degli ultracorpi, capolavoro della fantascienza paranoica diretto da Don Siegel nel 1956. Anche il nome di un personaggio, la signora Driscoll, tra i primi a essere infettata, è lo stesso del personaggio interpretato da Brooke Adams nell’ottimo remake degli ultracorpi diretto da Philip Kaufman nel 1978 e conosciuto in Italia con il titolo di Terrore dallo spazio profondo. Inoltre, il modo in cui i corpi degli umani si liquefanno in una massa informe – che da un lato ricorda il famoso Blob – e si ricompongono a formare l’incarnazione fisica del Mind-Flayer, non può non ricordare le metamorfosi organiche della Cosa, capolavoro carpenteriano, a sua volta remake, personalissimo ed estremo, de La cosa da un altro mondo di Christian Nyby del 1957.
Proprio su questi riferimenti, si fonda la scena più consapevolmente metanarrativa di tutta la serie: Lucas beve con gusto la Coca-Cola 2, versione più dolce e audace della Coca-Cola lanciata dalla stessa ditta proprio nel 1985, e Mike lo critica, chiedendogli come fa a bere quella specie di imitazione in una situazione del genere. Lucas risponde paragonando la Coca 2 alla Cosa di Carpenter, come dicevamo, remake del classico degli anni Cinquanta La cosa da un altro mondo, ma realizzato con sensibilità e sguardo moderni (ovvero da anni Ottanta), nonché con un’audacia e un gusto per l’horror metafisico estremo che lo hanno reso un capolavoro ben più incisivo dell’originale. Così anche la Coca-Cola 2 sarebbe un remake ancor più gustoso della Coca-Cola originale. Con questa metafora si chiarisce anche il senso dell’intera operazione Stranger Things.
In questi episodi, oltre al Mind-Flayer – assenti i demo-gorgoni delle passate stagioni –, a fare la parte dei cattivi sono i russi, come da tradizione degli action anni Ottanta. Qui hanno le uniformi da malvagi, sono davvero crudeli e rispondono bene o male a tutti i luoghi comuni che si costruivano su di loro nel corso della Guerra Fredda. Il loro agente più letale, Grigori, ha non poche cose in comune con il Terminator di Schwarzenegger: è inarrestabile, implacabile e si muove quasi come un automa sulle note della colonna sonora che, quando entra in scena lui, echeggiano non poco quelle del film di Cameron sul famoso Cyborg. Tuttavia, la domanda che non trova risposta è: come hanno fatto i russi a costruire nel sottosuolo americano, nell’Indiana per la precisione, un’enorme base operativa – parliamo di chilometri di corridoi – per i loro esperimenti inter-dimensionali senza che nessuno se ne accorgesse? Rimarrà un mistero.
Inutile addentrarci ulteriormente nel florilegio di citazioni e strizzate d’occhio presenti nella terza stagione. Lasciamo al pubblico il piacere di farlo. Impossibile però non ricordare il gustoso e divertente – ai limiti del trash – duetto di Dustin e della sua fidanzata Suzie, sulle note di Never-ending story, canzone iconica di quegli anni, colonna sonora dell’altrettanto iconico cult La storia infinita.
Come sappiamo, il punto di forza di Stranger Things sono i personaggi. Nella terza stagione, ritroviamo i ragazzi cresciuti di un anno e alle prese con i tipici problemi della loro età, in particolare il rapporto con il gentil sesso. Mike e Undi, nonché Lucas e Max, fanno ormai coppia fissa e, in preda alle tempeste ormonali, i primi due non fanno altro che baciarsi, provocando ostilità nell’amico Will rimasto single, e gelosie paterne in Jim Hopper, il burbero sceriffo di Hawkins che diventa il padre putativo di Undi nella seconda stagione. Jim si trova quindi ad affrontare le difficoltà della gestione di una figlia, lui che ne ha già persa una nella back-story della serie, e a doversi confrontare con la scoperta dei suoi sentimenti nei confronti di Joyce, la madre di Will, interpretata dalla sempre più svampita ma efficacissima Winona Ryder, rilanciata alla grande, negli ultimi tre anni, proprio da Stranger Things.
Anche gli adolescenti più grandi (17-18 anni), Nancy, Johnatan, il divertentissimo Steve Harrington, ex bullo rinsavito, Billy, fratello cattivo di Maxine, nonché la new entry Robin (interpretata da Maya Hawke, figlia di Uma Thurman ed Ethan Hawke), interessante mina vagante, avranno il loro da fare alle prese con consapevolezze nuove e scoperte di cui non possiamo accennare per ovvi motivi. La costante è che tutti, grandi e piccoli, proseguiranno nel proprio percorso di crescita personale così come ci hanno abituato le stagioni precedenti, con alcuni sviluppi imprevedibili e interessanti, alcuni anche traumatici.
I protagonisti agiscono a gruppetti: Steve, Dustin, Robin e poi Erica (altra new entry, sorellina saccente di Lucas); Will, Mike, Lucas, Undi e Maxine; Nancy e Johnatan; Jim Hopper e Joyce. Soltanto negli ultimi due episodi i loro destini si incroceranno per il gran finale di stagione. L’andamento narrativo è quindi tipico di molte serie e gioca sapientemente con le aspettative del pubblico che non vede l’ora che i suoi beniamini si riuniscano.
Si perdono un po’ la freschezza e l’originalità della prima stagione ma questo è fisiologico. I personaggi, essendo più maturi, affrontano ora problemi diversi ma è anche giusto che sia così. L’universo mitologico invece non è espanso granché perché abbiamo il solo ritorno del Mind-Flayer, anche se in forma fisica stavolta, e non ci sono scene ambientate nel Sottosopra, il punto di forza visionario delle passate puntate. La formula presenta quindi alcune debolezze e stanchezze fisiologiche, tuttavia la forza dei personaggi rimane e il pubblico non potrà fare a meno di palpitare per le loro sorti.
Attendiamo una quarta stagione di Stranger Things ricca di maggiori novità dal punto di vista dell’universo orrorifico che costituisce l’ossatura mitologica della serie e qualche cattivo meno stereotipato. Mind-Flayer a parte si intende, lui è sempre di tutt’altra classe.