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Un manicomio in Africa: per l’Italia il disagio psichico è ancora un problema di decoro

Giusy Santella di Giusy Santella
6 Luglio 2022
in Attualità
Tempo di lettura: 3 minuti
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È di pochi giorni fa la notizia – passata del tutto inosservata – della costruzione di una vera e propria cittadella psichiatrica nella periferia di Nairobi, per effetto di un progetto tutto italiano. Potrebbe sembrare qualcosa di cui andare fieri, stando alle parole di quei pochi che hanno divulgato l’iniziativa, eppure anche stavolta le nostre istituzioni non hanno perso l’occasione per sostenere qualcosa di davvero vergognoso. Il Kenya International Mental Wellness Hospital – questo il nome di quello che sarà a tutti gli effetti un manicomio in grado di ospitare seicento persone – è frutto del lavoro congiunto del Gruppo Ospedaliero San Donato – il primo gruppo ospedaliero privato italiano, presieduto da Angelino Alfano – e della Gksd Investment Holding Group. All’inaugurazione dei lavori era presente anche il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, a suggellare quindi l’apprezzamento per una simile iniziativa.

L’idea è quella di ripresentare la struttura manicomiale sotto una diversa denominazione, facendole magari assumere l’aspetto di una clinica, ma con l’intento non ben mascherato di effettuare una vera deportazione dei folli, in periferia, lontano dagli occhi degli altri cittadini decorosi. Ma se è vero, come dichiarato dai soggetti coinvolti, che le malattie mentali stanno assumendo un peso sempre maggiore nelle società contemporanee, lo strumento non può essere quello dell’isolamento e medicalizzazione, recuperando schemi di cura ormai anacronistici, anziché studiare le cause più profonde di una simile proliferazione.

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La presenza di un nostro Ministro, però, ci dice molto di più: supportare un modello di segregazione manicomiale significa ignorare anni di conquiste e precise norme. Con la Legge 180 del 1978 non si voleva infatti superare solo l’ospedale psichiatrico giudiziario in senso stretto, quanto la vocazione precisa di escludere chiunque fosse, anche solo presunto, portatore di un disagio dalla società, dalla comunità, da tutto ciò che è esterno. E se l’Italia è stato uno dei primi Paesi a riconoscere i diritti sociali e civili di chi è portatore di un disagio, tutto questo è di fatto smentito. L’eliminazione è rimasta solo formale, in parte perché continuano a esistere istituzioni che, seppur denominate diversamente, non sono altro che una riproposizione di quello stesso schema – basti pensare a ciò che stanno diventando le REMS o alla gestione della salute mentale in carcere –, in secondo luogo perché quello del disagio psichico continua a essere trattato come uno stigma inaccettabile per la società. I matti sono coloro che non rispondono a degli standard immodificabili e che per questo vengono emarginati, perché capaci di turbare i benpensanti.

Esportare in altri Paesi il modello manicomiale, vantandosene, presenziando con le proprie istituzioni, non equivale forse a non aver mai superato tale modello, addirittura a desiderarlo ancora?

Il Coordinamento nazionale salute mentale ha espresso tutto il suo rammarico e la sua preoccupazione al riguardo con una lettera aperta indirizzata al governo e in particolare al Presidente del Consiglio Mario Draghi, che però è rimasto silente, così come il Ministro della Salute Roberto Speranza – per il quale invece questo dovrebbe rappresentare un tema fondamentale. La presenza di Di Maio rimane dunque eloquente, e probabilmente c’è poco altro da aggiungere.

Quanto sta accadendo ci pone poi di fronte a un’ulteriore riflessione, che riguarda la sanità, in particolare a tutela della salute mentale – e quindi il diritto di essere curati – e gli interessi economici che in questo progetto sembrano farla da padroni, mentre ne dovrebbero essere del tutto esclusi. Le nostre istituzioni non solo dimostrano di non avere a cuore le sorti di chi soffre un disagio psichico – in qualsiasi parte del mondo si trovi – portando con sé un modello arcaico di cura, ma anche di avere come punto di riferimento sempre e solo motivazioni di natura affaristica e di guadagno. Cosa significherà questa nuova alleanza siglata in Kenya? Cosa staremo chiedendo in cambio dell’esportazione del nostro virtuoso modello di ghettizzazione?

Si violano così le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità negando il processo di deistituzionalizzazione delle persone con disturbi mentali e di costruzione faticosa di una rete territoriale di servizi di cura degni di essere definiti tali, sponsorizzando un’opera che inoltre si pone in contrasto con le convenzioni internazionali siglate dall’Italia. Ma tutto tace.

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