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Teniamoci stretta l’autonomia della magistratura

Farouk Perrone di Farouk Perrone
4 Giugno 2020
in Attualità
Tempo di lettura: 4 minuti
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Raccontare un’azione commessa da un politico, riportarne una gaffe, commentarne una dichiarazione, trovarne le contraddizioni ed esercitare il diritto-dovere di critica è la funzione principale di ogni giornalista che si rispetti: ognuno lo fa a modo proprio ma, quando lo fa in buona fede, adempie all’irrinunciabile obiettivo di informare i cittadini e di metterli nella condizione di sapere chi li governa – o si propone di farlo – affinché, una volta chiamati alle urne, possano scegliere in maniera consapevole. E questo vale nei confronti di tutte le istituzioni, anche quelle che non eleggiamo ma che condizionano – e non poco – la nostra quotidianità.

Nelle ultime settimane, ad esempio, le pagine dei giornali sono piene dello scandalo che ha coinvolto il potere giudiziario nella persona di Luca Palamara, pubblico ministero ed ex consigliere del Consiglio Superiore della Magistratura, nei confronti del quale è stata aperta un’inchiesta per corruzione dalla quale emergono le trame pericolose da lui coordinate. L’indagine, partita nel maggio del 2019, ha infatti per oggetto viaggi e altri benefit che Palamara, insieme a una sua amica, avrebbe ottenuto dall’imprenditore Fabrizio Centofanti nei confronti del quale si sarebbe reso disponibile in virtù delle funzioni svolte in qualità di membro del CSM, favorendo il contatto amico e altri tramite nomine nelle varie Procure. Dalle intercettazioni emerse si evincono, poi, le manovre e le relazioni portate avanti dal magistrato, infine si rendono pubblici i rapporti confidenziali – al momento, penalmente irrilevanti – con diversi politici.

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Di certo, i mezzi di informazione hanno fatto benissimo a parlarne perché siamo tenuti a sapere il grado di moralità – collegato al ruolo svolto e non alla sfera strettamente privata – anche di coloro che giudicano i cittadini o che effettuano le indagini sulle cui basi si forma il giudizio. Tuttavia, siamo convinti che ciò non sia sufficiente per minare la reputazione della magistratura: all’interno del nostro ordinamento, infatti, l’organo è autonomo e indipendente per definizione ed è importante lasciare intatti tali indispensabili requisiti. Ospite a Piazzapulita, invece, l’avvocato Caiazza, Presidente dell’Unione delle Camere Penali, ha insistito nell’affermare che casi come quello che coinvolge il dottor Palamara mettono a repentaglio la credibilità dell’intero organismo: nulla di più sbagliato.

In Italia, la magistratura è composta da circa 9mila membri e gli scandali che coinvolgono singoli componenti non bastano per inquinarne la totalità. La maggior parte dei magistrati, infatti, svolge onestamente il proprio delicato lavoro in condizioni non sempre agevoli, considerando l’ingente mole di processi, l’esiguo numero di operatori giudiziari e i mezzi talvolta inadeguati. Si dirà che questo ragionamento cozza con quello che spesso imputiamo alla classe politica che, pur essendo composta in maggioranza da persone perbene – quantomeno dal punto di vista della fedina penale –, a più riprese additiamo come incompetente o marcia. Ebbene, posto che è sempre doveroso distinguere all’interno dei diversi ambiti chi svolge in maniera pulita il proprio lavoro da chi non lo fa, c’è una bella differenza: in politica si è quasi sempre all’interno di partiti o movimenti, dunque bisogna rispondere anche delle idee espresse dal proprio leader o da determinati personaggi vicini alla propria sfera d’azione. La magistratura, invece, è un potere diffuso, il che significa che ogni magistrato rappresenta individualmente il potere giudiziario, pertanto non può rispondere delle scelte altrui.

Sia chiaro, i magistrati devono guadagnarsi quotidianamente la fiducia dei cittadini: a imporglielo è l’enorme responsabilità che detengono ed episodi sconcertanti come quello che stiamo trattando certamente non aiutano. L’arrivismo è, infatti, uno dei nemici più pericolosi della toga se ad ambire a incarichi migliori non è chi si pone come fine il buon funzionamento dell’ordinamento giudiziario, ma chi è interessato soltanto a mere logiche di potere. Un potere che non è da stigmatizzare in assoluto, ma che bisogna saper utilizzare in maniera coscienziosa.

A questo proposito, se davvero si vuole preservare l’autonomia dell’organo giudiziario, occorre anche che la politica eviti intromissioni che non fanno il bene di giudici e pm. Nonostante il ventennio berlusconiano sia finito da un po’, ancora ne sentiamo l’eco quando si parla di separazione delle carriere, ossia della proposta di staccare l’organo giudicante dall’organo inquirente, sacrificando l’unitarietà dell’ordine in questione. Così come è giusto osservare che, stando all’art.104 della Costituzione, spetta al Parlamento eleggere un terzo dei membri del CSM: probabilmente, nella nobile logica del legislatore costituente il fatto che il potere legislativo scegliesse parte dei suoi membri poteva fungere da garanzia, tuttavia sarebbe maggiormente proficuo tenere quanto più distante possibile i due poteri: il CSM rappresenta l’organo che vigila sull’autonomia e sull’indipendenza della magistratura e non è del tutto salutare per la nostra democrazia che gli arbitri vengano scelti anche dalla classe politica, la stessa che più volte mette in discussione le decisioni dei giudici in maniera totalmente arbitraria in barba alla separazione dei poteri. Dunque, se la magistratura vuole mantenere la propria buona reputazione, le basta solo seguire quelle sei famose parole presenti in tutte le aule giudiziarie: la legge è uguale per tutti.

Prec.

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