L’articolo 15 della Legge 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario inserisce, tra gli elementi del trattamento, l’istruzione, oltre che la formazione, il lavoro e la partecipazione a progetti di pubblica utilità. Ciò significa che lo studio rappresenta uno strumento fondamentale perché la pena possa rispondere pienamente al fine rieducativo e risocializzante sancito dalla nostra Costituzione, un mezzo per permettere alla persona che ha scontato una condanna di rientrare in società e di farlo con “qualcosa in più”. Eppure, il Tribunale di Bologna – con un’ordinanza per la quale la Cassazione si è affrettata a dichiarare inammissibile il ricorso – ha negato una detenzione domiciliare per motivi di salute, adducendo come causa che la laurea conseguita in carcere e la frequentazione di un master per giurista d’impresa si ritiene possano affinare le indiscusse capacità del ricorrente e gli strumenti giuridici a sua disposizione per reiterare condotte illecite in ambito finanziario ed economico.
Sembra surreale, ma è questo ciò che si è visto rispondere un detenuto condannato a diciotto anni di detenzione, a quanto pare reo di aver utilizzato parte del tempo per dedicarsi allo studio, conseguendo con lode ben due lauree e un master in giurista d’impresa. Un impegno che gli ha consentito, tra le altre cose, di usufruire anche di permessi premio all’esterno, secondo la logica premiale che è alla base del nostro ordinamento penitenziario – e su cui ci sarebbe tanto da riflettere –, in particolare perché l’antimafia veneziana ha confermato il distacco dal clan di appartenenza. In maniera paradossale, gli stessi elementi che vengono valutati positivamente ai fini del trattamento diventano sintomo di pericolosità sociale e, dunque, preclusivi di misure esterne di maggiore libertà, di cui avremmo molto bisogno, anche per decongestionare gli istituti che stanno ormai scoppiando.
Con l’ordinanza di cui parliamo non solo si mettono in dubbio gli stessi strumenti di risocializzazione previsti dalla legge, ma si sacrifica di fatto il diritto allo studio, inviolabile, qualsiasi sia la condizione del soggetto – libero o detenuto – che non può essere mortificato per il solo fatto che si sta scontando una pena privativa della libertà personale. Così, il giurista e professore Giovanni Maria Flick e l’Associazione Antigone – per il tramite della sua avvocatessa – hanno presentato un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, denunciando che l’istruzione passa così da primario strumento del trattamento penitenziario e volano di emancipazione per un futuro oltre la pena a sintomo di pericolosità sociale dei detenuti.
Giova ricordare che l’università è una recente conquista del mondo carcerario e, a oggi, sono solo 1034 le persone detenute iscritte a una delle facoltà dei trentadue atenei italiani inseriti nel circuito penitenziario. Si tratta di vittorie che non solo non bisogna sottovalutare ma che dobbiamo a tutti i costi difendere dai tentativi di ridurre la pena a mera punizione.
I livelli di alfabetizzazione – stante anche il gran numero di persone straniere detenute – e scolarizzazione tra la popolazione detenuta è molto basso: tuttavia, in base agli ultimi dati diffusi, sono poco più di 20mila le persone iscritte ai corsi scolastici, dal primo livello alle scuole superiori, e molte, purtroppo, ne restano escluse. Dunque, ancora tanto c’è da fare su questo piano e pronunce come quella del Tribunale di Bologna non sono solo disumane, ma rischiano anche di essere un disincentivo allo studio per le persone recluse.
A ciò si aggiunga il periodo pandemico attraversato: questo è stato ed è tuttora una dura sfida per le istanze risocializzanti in carcere poiché in molti istituti si è passati dal regime delle celle aperte a quello delle celle chiuse e numerose attività rieducative sono state sospese. Tra queste, c’è purtroppo la scuola, che in molti casi è stata sospesa provocando sfiducia e tassi di abbandono scolastico fino al 30%. L’utilizzo di strumenti tecnologici in carcere, che faciliterebbero l’apprendimento e i percorsi d’istruzione, incontrano grossi limiti, in particolare dovuti alla mancanza di volontà politica che relega il carcere ai margini della società, come luogo abbandonato e alieno.
Anziché disincentivare lo studio, le istituzioni dovrebbero investire su tale fondamentale strumento poiché esso non infantilizza né punisce le persone recluse – come invece si vorrebbe –, ma è in grado di emanciparle poiché, lo ripetiamo, la cultura rende liberi.