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Sparatoria a Sant’Anastasia: proiettili e carezze mancate

Milena Dobellini di Milena Dobellini
3 Febbraio 2024
in Attualità
Tempo di lettura: 4 minuti
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Esiste una verità più profonda dell’esperienza, che sta al di là di ciò che vediamo, persino di ciò che sentiamo. È una categoria di verità che separa ciò che è profondo da ciò che è soltanto razionale; la realtà dalla percezione. Di solito questa categoria di verità ci fa sentire inermi e capita che il prezzo da pagare per conoscerla, come il prezzo da pagare per conoscere l’amore, sia più alto di ciò che i nostri cuori sono in grado di tollerare. Non sempre la verità ci aiuta ad amare il mondo, ma senza dubbio c’impedisce di odiarlo. – Gregory David Roberts, Shantaram

È il 23 maggio 2023, una serata primaverile sta tramontando per lasciar spazio alla notte, quando due ragazzi di diciassette e diciannove anni, dopo una lite, sparano con una pistola e una mitraglietta dieci colpi contro un bar al centro di Sant’Anastasia, in provincia di Napoli. Feriscono due genitori che stavano serenamente mangiando un gelato e la loro figlia, di soli dieci anni, che subirà due interventi chirurgici al cervello per estrarre il proiettile e diversi giorni di terapia intensiva. Immagino il volto sconquassato, sfregiato di una bambina. Specchio di una società da ricostruire. Cominciando a guardarsi. Non a evitarsi.

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Il mondo, lo Stato, le persone undici anni fa, ogni giorno, fino a quella sera primaverile, hanno fatto finta di non vedere un bambino che a soli sei anni ha perso suo padre, pregiudicato, inserito in contesti camorristici, ucciso il giorno di Santo Stefano. L’hanno lasciato crescere in un posto senza scambio, in cui il degrado non vede altro che degrado. Un posto con le tapparelle abbassate e le bocche chiuse. Undici anni dopo, è uno dei due ragazzi che ha sparato. Penso a chi l’abbia potuto temere o, peggio ancora, escludere, giudicare per la sua famiglia, defraudandolo del suo diritto a essere bambino. Come se la propria famiglia si potesse scegliere. Gli schiaffi si danno anche per questo. Per non aver mai ricevuto carezze.

Chi ha bisogno di impugnare un’arma per sentire di avere potere forse non si è mai sentito amato o, peggio, non si è mai sentito libero. Perché il contesto in cui si nasce può rappresentare una prigione. Una prigione inconsapevole in quanto l’unica realtà che si conosce, ma pur sempre una prigione. È ciò che ha percepito Roberto Di Bella, giudice e poi presidente del Tribunale dei minori di Reggio Calabria. Dopo una lunga osservazione, ha selezionato accuratamente i casi che ne necessitavano e ha allontanato circa sessanta minori dalle loro famiglie d’origine. Potrebbe sembrare un gesto estremo per alcuni, ma lo è per evitare conseguenze estreme in contesti estremi, attuato con grande lungimiranza e umanità. Sottrarre per restituire. È ciò che ha provato a fare. E alcuni genitori protagonisti di contesti criminali l’hanno ringraziato quando hanno visto i figli riuscire a svincolarsi da quello che sembrava il loro destino ineluttabile.

Una volta, a dodici anni, vidi un ragazzo della mia stessa età perdere l’udito a un orecchio per aver tentato di far scoppiare un botto, un fuoco d’artificio inesploso. Mi colpì. Forse nessuno gli aveva spiegato che i botti inesplosi possono fare più male di qualsiasi fuoco d’artificio lanciato nel cielo. O forse la volontà di far esplodere l’inesploso non tiene conto dei rischi. Sembrava accettare quel danno permanente con una rassegnazione avvilente. Il dolore nascosto e negato può diventare rabbia e odio. Gli mancava l’educazione alla speranza, palestra di stupore. Possedeva invece l’insegnamento alla rassegnazione, all’essere nato per schiacciare ed essere schiacciato. Il dolore si somiglia sempre. La sua negazione può avere esiti inaspettati e, troppo spesso, tragici.

Domenica scorsa la PM, come riporta Il Mattino, ha chiesto il processo immediato per i due ragazzi della sparatoria di Sant’Anastasia, la prima udienza ci sarà il prossimo 8 febbraio. Risponderanno di tentato omicidio e detenzione di armi da fuoco per fini mafiosi. Un contesto abituato a riempire i vuoti con dei proiettili insegnerà ai propri figli a riempire le loro mancanze con delle pallottole, la propria sete di onnipotenza con l’impugnare pistole e mitragliette.

Quando ci sono due minori, uno che ha sparato e l’altra che è stata sparata, non ci sono carnefici. Ci sono due vittime. Vittime di un sistema che distoglie troppo spesso lo sguardo, per poi incitare odio e repressione quando si contano morti e feriti. È il fallimento di tutti. È l’ordigno inesploso di chi si preoccupa oggi giustamente del fuoco, ma ieri non si è mai preoccupato della luce che merita ogni bambino a cui non è stato concesso di essere tale, lasciandolo appassire nel buio della sua misera realtà.

Che il percorso in carcere possa essere davvero un percorso, faticoso e tortuoso, ma rieducativo, come sempre dovrebbe essere. Un abbraccio forte alla bambina e a chiunque le spiegherà o le avrà già spiegato il motivo per il quale ha sofferto e rischiato la vita, a soli dieci anni, mentre mangiava un gelato. Che lo Stato possa giungere a una verità capace di aiutare ad amare il mondo, o almeno che impedisca di odiarlo, magari seguendo la traccia creata da Di Bella. Che la si cerchi una verità, capace di aiutare ad amare il mondo, o che impedisca di odiarlo, dentro e soprattutto fuori dalle aule giudiziarie. Che la si cerchi anche dove non c’è microfono, né imputato, né difesa. Che la si cerchi magari anche negli altri significati del verbo processare, ovvero analizzare ed elaborare.

Che analisi ed elaborazione possano condurre a un domani senza bambini in ospedale con dei proiettili conficcati nel cervello e senza minori che girano armati per le strade di un paese, sparando, seminando terrore e morte, finendo in carcere.

Prec.

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