Era una giornata limpida e luminosa quella del 28 marzo 1941. Virginia, come era solita fare ogni giorno al suo risveglio, si vestì e si recò nel suo studio sul retro di Monk’s House, quella stanza in cui aveva composto alcune delle sue opere più celebri e che affacciava sul giardino che tanto amava. Si mise subito a lavoro: si sedette alla scrivania di legno, vi posizionò sopra due fogli immacolati, intinse la penna nel calamaio e cominciò a scrivere. Riempite le pagine bianche di inchiostro nero, le ripiegò accuratamente, cosicché ogni angolo fosse perfettamente allineato all’altro, e le ripose ognuna in una busta, ciascuna adornata da un nome. Si alzò, tenendo in mano quegli involucri, si avvicinò al camino e lì sopra li ripose, in bella vista, in modo che chi sarebbe entrato li avrebbe immediatamente visti. Poi indossò il soprabito, prese il suo bastone e si diresse in direzione del fiume Ouse.
Arrivata alla sponda, vide quella distesa d’acqua pronta ad accoglierla come il grembo confortevole di una madre. Non esitò nemmeno per un attimo: raccolse delle pietre dalla riva e se ne riempì le tasche, poi, lentamente entrò in quella linfa fredda, che avvolse prima le sue gambe, poi le sue braccia e infine il suo capo. Il liquido le entrò su per le narici, le invase la bocca e i polmoni. Finalmente, l’acqua stava facendo tacere quel brusio che aveva nella testa, stava dando a lei e ai suoi affetti la pace che da tempo era loro negata.
Virginia questa volta non aveva resistito, aveva ceduto a quel malessere che da anni la tormentava, che a tratti la rendeva sovreccitata ed eccessivamente loquace e a tratti la riempiva di quella solitudine interiore, che la invadeva anche quando era circondata dai suoi cari. La malattia le aveva fatto visita la prima volta da bambina, dopo la morte della madre e della sorella, e da allora non l’aveva più abbandonata: si era insinuata nella sua testa e nelle sue orecchie facendole sentire quelle voci che le tenevano compagnia e gli uccelli cantare in greco i versi di Pindaro; le aveva poi distrutto il corpo impedendole di nutrirsi e costringendola al riposo; aveva fatto capolino ogni volta che uno dei suoi scritti stava per essere pubblicato, provocandole ansia e crisi; aveva tentato spesso di sottrarle la vita, fin a quando ci era riuscita.
Quel morbo a volte le aveva impedito anche di creare: scrivere era impossibile quando si impossessava del suo pensiero. Tuttavia, era anche la sua fonte d’ispirazione, lo zampillo da cui nascevano le sue opere, da cui sgorgavano i pensieri che esprimeva attraverso le parole, il seme da cui maturavano quei personaggi affetti da psicosi, suoi alter ego, ma anche da quegli spiriti che la perseguitavano. La malattia era per lei matrice generatrice di quelle visioni mistiche da cui nasceva il genio:
La malattia raffina la sensibilità, infonde pensieri inattesi, ti mette in contatto con la natura. Il malato osserva il cielo, un fiore, dà significato ad uno scricciolo, trasfigura la minima esperienza. È un essere superiore.
E proprio per questo quel male non era poi così malvagio. D’altronde, le aveva anche permesso di essere libera da qualsiasi condizionamento, di essere una delle donne eccentriche di cui aveva scritto, di travestirsi da principe africano e prendersi beffa della marina inglese, di mettere giù quella maschera che coloro che si definiscono sani sono costretti a indossare per adattarsi ai costumi sociali:
Confessiamolo (la malattia è il grande confessionale), c’è una sincerità infantile nella malattia; si dicono cose, scappano fuori verità che la cauta rispettabilità della salute nasconde. […] Noi non conosciamo la nostra anima; figuriamoci quella degli altri. Gli esseri umani non vanno mano nella mano per tutto il cammino. In ognuno c’è una foresta vergine, intricata, impenetrabile; un campo innevato dove non si conoscono impronte di uccelli. Qui avanziamo da soli, e preferiamo che sia così. Sarebbe intollerabile avere sempre la simpatia di qualcuno che ci accompagna, essere sempre capiti. Ma da sani si deve mantenere la pretesa generosa, va sempre rinnovato lo sforzo – di comunicare, civilizzare, partecipare, coltivare i deserti, educare gli indigeni, lavorare insieme di giorno e di notte divertirsi. Con la malattia la simulazione cessa.
Quel malessere, però, ora era diventato un fardello troppo greve da portare: un peso che premeva sulle sue spalle, ma anche su quelle di coloro che la amavano, anzi, soprattutto sulle loro e per questo doveva liberarli. Lo sentiva, questa volta non ce l’avrebbe fatta: entrata nel mondo delle ombre che la perseguitavano, non sarebbe stata più in grado di uscirne, non sarebbe più tornata alla vita per partecipare a una festa travestita da lepre marzolina o per intrattenersi nel prato di Vanessa con tutti i suoi amici. Questa volta il richiamo dei fantasmi era troppo forte, la invitava a congiungersi con loro in quella distesa azzurra che stava donando la pace a lei, ma soprattutto a Leonard, a cui aveva dedicato le sue ultime parole:
Carissimo,
sento con certezza che sto per impazzire di nuovo. Sento che non possiamo attraversare ancora un altro di quei terribili periodi. E questa volta non ce la farò a riprendermi. Comincio a sentire le voci, non riesco a concentrarmi. Così faccio la cosa che mi sembra migliore. Mi hai dato la più grande felicità possibile. Sei stato in ogni senso per me tutto ciò che una persona può essere. Non credo che due persone avrebbero potute essere più felici, finché non è sopraggiunto questo terribile male. Non riesco più a combattere. Lo so che sto rovinando la tua vita, che senza di me tu potresti lavorare. E lo farai, lo so. Vedi, non riesco nemmeno a esprimermi bene. Non riesco a leggere. Quello che voglio dirti è che devo a te tutta la felicità che ho avuto nella mia vita. Hai avuto con me un’infinita pazienza, sei stato incredibilmente buono. Voglio dirti che – lo sanno tutti. Se qualcuno avesse potuto salvarmi questo qualcuno eri tu. Tutto se ne è andato via da me, tranne la certezza della tua bontà. Non posso più continuare a rovinarti la vita.
Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi.
V.