La cronaca ci sconvolge continuamente con casi in cui le vittime di omicidio sono bambini. Ancora più raggelante è quando l’omicida in questione è un genitore. Nello specifico della nostra riflessione, quando lo è il padre.
Elena e Diego Bressi erano due gemelli di 12 anni. Erano, perché oggi non ci sono più, strangolati dal papà lo scorso 27 giugno. Residenti a Gessate (MI), i Bressi adoravano trascorrere le vacanze nella loro casa di montagna a Margno, nel lecchese, come ci mostrano le innumerevoli foto felici postate sui social. L’ultima, sul profilo Instagram del genitore, li ritrae sorridenti, la didascalia recita sempre insieme. Si trovavano tutti e tre, padre e figli, in gita sulle montagne della Valsassina. Al termine della bella giornata, l’uomo ha preparato la cena e, nella notte, ha ucciso i gemelli strangolandoli a mani nude. Dopo averli sistemati sul letto matrimoniale, ha inviato un messaggio alla moglie dalla quale si stava separando: Non li rivedrai mai più. Infine, Mario Bressi, impiegato 45enne, si è suicidato gettandosi dal ponte della Vittoria a Maggio di Cremeno.
La madre, Daniela Fumagalli, ingegnere biomedico e dirigente di un’associazione sportiva, precipitatasi subito a Margno, ha soltanto potuto assistere impotente all’orrore. «Non si svegliano!» continuava a gridare in preda al delirio di fronte alle lacrime dei volontari della Croce Rossa e a quelle di tutto il paese mentre un vicino, che aveva sentito rumori sordi intorno alle tre del mattino, si affliggeva perché non era riuscito a immaginare, dunque a impedire, una tragedia simile. Una tragedia che ha sconvolto l’Italia intera. Parenti e amici li descrivono come gente normale, una famiglia felice che sì, stava attraversando le difficoltà di una separazione ma neppure granché traumatica, tanto che i genitori vivevano ancora sotto lo stesso tetto. L’immagine di Mario è quella di una padre amorevole, che non ha mai mostrato segni di cedimento o altro. E allora che cosa è successo nella sua testa per arrivare a compiere un gesto simile?
Nonostante l’apparente mancanza di senso, sono numerosi gli studi che hanno tentato di esaminare la questione, distinguendola dal classico Complesso di Medea usato per definire le madri che uccidono i figli, specialmente quelli molto piccoli o addirittura appena nati. Nel caso dei padri che uccidono la prole, la situazione cambia ed entra in gioco, nella maggioranza delle vicende, un movente decisamente inquietante: la vendetta nei confronti del partner.
Ne ricordiamo diversi di episodi in Italia, nel corso degli anni. Ad esempio, nel 1994, a Civitavecchia, Tullio Brigida uccise i figli Luciana, Laura e Armandino e li seppellì nelle campagne di Cerveteri. Oppure, nel 2014, Michele Graziano accoltellò a morte i suoi bambini, Elena di 9 anni e Thomas di 2, per poi tentare il suicido nella sua casa a Giussano. Sempre nello stesso anno, Mattia Schepp uccise le due figlie Livia e Alessia e decise di suicidarsi gettandosi sotto un treno in corsa. In questi casi, come in molti altri, gli assassini non accettavano la separazione dal coniuge. Nel 50% circa, lo sterminio prevede anche l’omicidio della compagna.
Non è affatto un caso che negli ultimi anni siano in pericoloso aumento i figlicidi da parte dei padri a causa di disguidi familiari, separazioni o divorzi sempre più frequenti rispetto al passato. Secondo lo psicologo forense americano J. Reid Meloy, i padri non si trasformano da amorevoli genitori a feroci assassini in pochi minuti ma arrivano a uccidere dopo un lungo percorso di frustrazione e pianificazione. E, soprattutto, sono in grado di farlo mantenendo un’immagine di assoluta normalità tanto che, nella maggioranza dei episodi, nessuno nota segnali.
Emblematica la vicenda di Dresda, nell’anno corrente, dove un padre ha ucciso i figli dicendo che la moglie, volendosi separare, aveva ferito la sua autostima. Autostima. Il collegamento sembra quasi impossibile da trovare, eppure la vendetta verso la moglie che ha osato lasciarlo rende il figlio uno strumento di rivalsa. Ne ha fatto un’ottima analisi la criminologa britannica Elizabeth Yardley: di fronte alla disgregazione della famiglia, gli uomini si sentono impotenti e umiliati nella propria virilità.
Lavoro e famiglia risultano da sempre i due punti centrali attorno a cui ruota il successo di un uomo. Nel tempo, la donna era stata abituata a non avere decisione in capitolo, a essere docile, a rispettarlo in quanto capofamiglia e a prendersi eventualmente le colpe di eventuali errori al fine di salvare sempre l’orgoglio del marito. Il matrimonio, felice o meno, doveva essere portato avanti a ogni costo. A seguito dell’emancipazione della donna, di una nuova consapevolezza e un nuovo rispetto del femminile, gli uomini che sono rimasti fermi, che non riescono a stare al passo con il mondo, percepiscono che la loro mascolinità è minacciata – non è un caso che i padri assassini provengano dai ceti sociali più disparati –, sentono di dover in qualche modo riottenere il controllo sulla moglie, quindi sulla famiglia, e farlo togliendole la cosa che più ama al mondo è l’apice del proprio delirio di onnipotenza.
Certi uomini odiano le donne indipendenti perché non sono più rassicuranti come un tempo e li mettono di fronte a tutte le loro fragilità. Quelle con cui sono da sempre stati cresciuti. Facciamo un pessimo lavoro con i ragazzi, nel modo in cui noi li alleviamo – ci dice Chimamanda Ngozi Adichie nel suo libro Dovremmo essere tutti femministi – Noi soffochiamo l’umanità dei ragazzi. Definiamo la virilità in modo molto limitato. Insegniamo ai ragazzi ad essere spaventati dalla debolezza, dalla vulnerabilità. Ma la cosa di gran lunga peggiore che facciamo ai maschi, facendo intendere che devono essere duri, è che li lasciamo con degli ego molto fragili. Più un uomo sente di dover essere un “uomo duro”, più è debole il suo ego.
Forse, un giorno, potremmo arrivare a vederla, questa autocoscienza. Ma nel frattempo dei bambini muoiono, oggettificati come sono oggettificate le compagne che, se non vengono uccise a loro volta, saranno condannate ugualmente alla dannazione eterna. Per cui no, cari giornali dal seguito anche piuttosto ampio. Non vi è consentito intitolare il vostro articolo Il dramma dei papà separati, descrivere l’omicida come sconvolto dalla separazione, scrivere che a causare la tragedia è stata la difficile separazione tra il padre e la madre. A causare la tragedia è stata la brutalità di un uomo che avrebbe dovuto proteggere i propri figli, crescerli, insegnare loro cosa è giusto e cosa no, amarli. Che avrebbe dovuto dire che non è colpa di nessuno se mamma e papà non vanno più d’accordo, perché succede, e che sarebbero sempre stati una famiglia. Perché vendicarsi di un coniuge utilizzando i figli come strumento, oltre a essere vile, significa punire anche se stessi. I figli sono di entrambi i genitori.