Non si può negare: Pierfrancesco Favino è una garanzia del cinema italiano. È lui il protagonista del nuovo film diretto da Mario Martone, Nostalgia, distribuito in sala da Medusa Film lo scorso 25 maggio dopo essere stato presentato in anteprima al Festival di Cannes 2022, dove era in concorso per la Palma d’Oro (vinta poi da Triangle of Sadness di Ruben Östlund).
Nel panorama cinematografico nostrano – e prima ancora in quello teatrale – Martone si è dimostrato più volte essere un regista e sceneggiatore singolare e sincero, cimentandosi in progetti audaci che hanno saputo promuovere un genio senza dubbio poliedrico, autoriale ed estremamente poetico. Lavori come Noi credevamo (2010) o Il giovane favoloso (2014), incorniciati da un’affascinante Italia ottocentesca, oppure le suggestioni di Capri-Revolution (2018) o, ancora, quella Napoli abbracciata all’opera della famiglia De Filippo, come l’adattamento moderno de Il sindaco del Rione Sanità (2019) e l’ultimo Qui rido io (2021) che ha anche ottenuto il Premio Pasinetti al miglior attore per Toni Servillo alla Mostra del Cinema di Venezia 2021.
In Nostalgia, ambientato in una Napoli contemporanea, il rione Sanità compare nuovamente sullo schermo e Favino incarna Felice, un uomo che è nato in quelle strade e che ci ritorna dopo quarant’anni all’estero, in Nordafrica. Torna nei luoghi della sua giovinezza, mostrata egregiamente nei vari flashback, in quella città che tanto si ama e tanto si odia e lui lo sa bene. Torna perché per trovare davvero se stessi bisogna prima perdersi. Torna per fare i conti con i propri errori, con le conoscenze del tempo, per incontrare e fare pace con il proprio passato e, forse, anche il proprio futuro. Martone sceglie di adattare su schermo l’omonimo romanzo del 2016 di Ermanno Rea e lo fa con rispetto e autenticità, restituendone l’anima. Non idealizza né stigmatizza Napoli, piuttosto mette semplicemente in evidenza luci e ombre di una città multisfaccettata, con le sue crepe e i suoi sfavillii, affascinante sì ma con una difficile situazione socio-politica.
«Io sono molto felice di una cosa» ha detto Favino in un’intervista assieme al regista. «E questo lo dico da non napoletano, però lo dico da persona che ama Napoli: questo film racconta tante sfumature di Napoli. Io trovo che Napoli, soprattutto al cinema, a volte noi la schiacciamo in pochissime tinte ed è poco rispettoso nei confronti di chi quelle tinte non ha nessuna voglia di utilizzarle e, anzi, che spende la propria vita a fare in modo che quelle altre tinte siano visibili. Per me questo è molto importante e Mario è riuscito a farlo in una maniera ammirabile».
Il rione, così come Napoli tutta, è un personaggio reale e Martone rapisce lo sguardo dello spettatore con inquadrature tattiche, con campi lunghi, con camminate in soggettiva del protagonista che ci lasciano empatizzare con lui, mentre rivede ogni angolo della sua città con occhi nuovi, quasi come fosse la prima volta. Felice, costretto ad andar via a soli 15 anni per qualcosa che non ci viene spiegato fin da subito. Costretto a lasciare la mamma e Oreste, quell’amico di infanzia da cui si sentiva inseparabile e che ritrovare dopo quarant’anni non è affatto facile.
Anche Oreste ha fatto delle scelte. Anche Oreste non è più lo stesso. Nei suoi panni, un ottimo quanto tenebroso Tommaso Ragno, che quest’anno ha recitato anche in Vetro, esordio di Domenico Croce. Possiamo scorgere in lui tutte le ferite e le cicatrici di quegli anni di lontananza. Rilevante poi il ruolo della Chiesa con Francesco Di Leva che interpreta Don Luigi Rega, prete che si batte per tenere i suoi ragazzi della Sanità lontani dalla malavita, personaggio ispirato al celebre Don Antonio Loffredo. Non una prima apparizione, quella di Di Leva, nei film di Martone, poiché lo avevamo già visto nei precedenti Qui rido io e Il sindaco del Rione Sanità.
Martone riesce a creare un film contemporaneo, elegante e intenso, plasmando la figura di un protagonista umano e non semplice, volto a intraprendere un viaggio interiore alla riscoperta delle proprie radici. L’immensa maestria attoriale di Favino mette in scena un protagonista complesso umano, che sceglie la fuga a va all’estero, a Il Cairo, dove diventa un ricco imprenditore. La lingua di Felice, nel primo tempo del film, è infatti strana, abituato com’era a parlare arabo o francese, poi diviene man mano più scorrevole e dialettale (chapeau a Favino per aver non solo imparato l’arabo ma essere riuscito a interpretare magistralmente la difficoltà di un napoletano non più abituato a parlare né in italiano né in dialetto per anni). Anche Napoli, nella prima parte della pellicola, sembra più cupa, rispecchiando forse la confusione emotiva del protagonista, mentre, nella seconda parte, si fa più luminosa.
Sono molti i momenti di grande commozione e intimità, ad esempio nelle scene tra Felice e sua madre (Aurora Quattrocchi) anziana e scoraggiata dalla vita. Oppure quelli di estrema tensione, come il confronto tra Felice e Oreste, vicini eppure ormai così distanti. In un ritmo dinamico, si accordano profonde scene dialogiche a silenzi riflessivi e piani ravvicinati ad ampie visuali. La partecipazione emotiva e visiva del pubblico la fa da padrona.
Un film struggente, delicato e onesto allo stesso tempo, dall’ottima colonna sonora e una riflessione finale lasciata in mano allo spettatore. Martone parla di scelte, di coscienza che, in un modo o nell’altro, torna a galla. Nostalgia di tutto ciò che è stato e di come sarebbe stato se. Nostalgia e volontà di riappropriarsi di quella parte più autentica di sé.