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La percezione dello straniero e il rifiuto della diversità

Chiara Barbati di Chiara Barbati
11 Giugno 2021
in Attualità
Tempo di lettura: 3 minuti
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Accade un’altra volta, l’ennesima. Persone disperate, fuggite da climi politici invivibili, da guerre e povertà, rifiutate da chi può aiutarle. Recuperate dalle intemperie del mare da organizzazioni non governative – le uniche che sembrano curarsene – e non accolte dai Paesi più vicini, dalle imponenti istituzioni che possono molto di più di una manciata di esseri umani. Quella della Sea-Watch 3 è una storia già sentita, già raccontata. Una narrazione fatta di ingiustizie, di tragedie e di piccoli atti eroici, di semplici persone che da sole tentano di rimediare ai problemi della società che abbiamo costruito, e che ci provano con più determinazione di chi effettivamente dovrebbe farlo.

Viviamo in un mondo ossessionato, ormai terrorizzato, dalla presenza dello straniero. Dall’esistenza di qualsiasi cosa diversa che esula dai canoni di normalità che ci imponiamo. Non a caso, la parola straniero ricorda un po’ strano, cioè tutto ciò che non è normale. E, dimenticando che la normalità è un concetto indefinibile perché niente è uguale e tutto è diverso, la confondiamo con l’usualità, con la consuetudine che, per definizione, è naturalmente accettata.

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Paralizzata dalla paura dell’altro, nascosta dietro il lavoro che ci rubano e da un problema che non è nostro, l’Italia si rifiuta di aiutare. Sulla scia di un’Europa che non collabora, è più facile lavarsene le mani, invece di gettarsi nel mare burrascoso. E non solo per evitare il carico di un’ulteriore responsabilità, ma perché lo straniero fa paura. Una storia vecchia quanto il tempo, vissuta da ogni società in ogni epoca. Perché l’estraneo, qualcosa che non si conosce, non può che essere una minaccia. Certamente non si tratta di una colpa tutta italiana, ma nelle nostre origini è facile riscontrare i motivi di una percezione tanto negativa dello straniero.

Per gli antichi Greci, gli stranieri erano degni di ospitalità. Qualcosa di diverso, certo, che non poteva che portare a un arricchimento culturale tramite l’integrazione. Non è un caso che il termine xenos – da cui la xenofobia – abbia il doppio significato di straniero e ospite. Vigeva la certezza che, aprendo le porte al nuovo arrivato, in futuro questi avrebbe ricambiato: l’ospite, prima o poi, sarebbe stato ospitato, portando alla luce la contrapposizione del significato anche del termine in italiano, in cui con tale sostantivo si indica sia chi dà sia chi riceve accoglienza. L’atteggiamento contemporaneo, invece, ricorda molto di più quello dei nostri altri, più agguerriti, antenati. Sulla stessa lunghezza d’onda dei Romani, infatti, l’abbinamento straniero-nemico (hostis) è estremamente più ricorrente. Ma non solo: così come i Romani consideravano barbarico qualunque altro popolo, anche noi lo riteniamo inferiore. Nella stessa direzione viaggia tutto il sistema occidentale da diversi secoli. Colonizzazioni, schiavitù, mancanza di umanità, voglia di conquistare e modificare le culture altrui, hanno smosso la fetta privilegiata del mondo verso la via dell’appiattimento culturale, della conquista, geografica quanto culturale e sociale.

Lo straniero fa paura. Per questo si alzano muri, per tenerlo distante ed evitare il contatto. Muri come muraglie, come per difendersi dal nemico, muri come roccaforti impenetrabili. Centri di accoglienza che sembrano gabbie, che tengono separate le due fazioni. Muri che, semplicemente, dividono, facendo in modo che sia ben chiara la differenza tra l’élite del mondo e tutti gli altri. Ma non è solo la paura a muovere le fila del distacco. La differenza percepita fa comodo, soprattutto a chi è propenso a ricondurre tutti i problemi, le violenze e la criminalità a qualcos’altro. Società intere che fanno dello straniero il capro espiatorio di tutte le crepe, le imprecisioni e le disuguaglianze che non sanno affrontare da sole. Ed è così che l’estraneo diventa l’unico ladro, l’unico stupratore, l’unico ad accaparrarsi un impiego.

Ancor di più se di un’altra razza, è troppo diverso, e l’unico modo per accettarlo è cambiarlo. L’integrazione perde il suo antico significato di amalgama e diventa necessità di trasformare il prossimo, di demolirlo e riassemblarlo secondo i propri canoni. E la diversità, quell’intrinseca caratteristica di ogni essere umano, quella differenza fatta di somme, di cultura, di esperienza, di vissuto e di carattere, smette di essere motivo di vanto e diventa antagonista.

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