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Attualità

Cosa ci racconta la violenza di Santa Maria Capua Vetere

«C’è un problema di riconoscimento delle autorità da parte delle figure giovanili, di riconoscimento del valore delle forze dell’ordine, delle figure genitoriali, dei maestri… Basta lo strattone di un maestro a un allievo perché si chieda l’allontanamento del maestro dalla scuola. Io sono cresciuto dalle suore che mi davano gli schiaffi dietro la testa e credo che bisogna avere il coraggio di riconoscere il dovere di essere autorevoli». Queste le parole pronunciate pochi giorni fa dal senatore leghista Gianluca Cantalamessa in occasione di un’interrogazione parlamentare riguardante le gang giovanili e la violenza tra gli adolescenti.

Pur non occupandoci del tema in questa sede, un simile discorso apre innumerevoli riflessioni, e vorrei concentrarmi su due in particolare: l’utilizzo della violenza come antidoto alla violenza stessa (ma altrui) e il tentativo di legittimare taluni gesti delle forze dell’ordine per il solo fatto che rappresentano delle autorità.

Secondo questa visione, infatti, il modo di attribuire valore e credibilità, e infondere quella fiducia nelle forze dell’ordine che forse manca, è ricorrere alla violenza, giustificando comportamenti che sicuramente superano il confine delle proprie competenze. È un discorso che mi ha riportato alla mente alcune immagini in cui quelle stesse forze dell’ordine suscitavano tutto fuorché fiducia, portando avanti atti che sono adesso oggetto del più grande processo per tortura mai celebrato prima: il dibattimento per i fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020 è iniziato da qualche mese, quei fatti contenuti in riprese video che per qualche ora hanno fatto il giro del web, salvo poi essere risucchiate nuovamente dall’indifferenza che caratterizza l’universo penitenziario.

E cosa c’entra quanto dichiarato dal senatore Cantalamessa con quello che è avvenuto, quasi due anni fa, in piena emergenza Covid, nel carcere sammaritano? In quell’occasione, vari deputati di Fratelli d’Italia, tra cui l’attuale Sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove, presentarono un’interpellanza parlamentare con cui chiedevano un encomio solenne per quegli stessi agenti per i quali ricostruivano una condotta a dir poco fantasiosa. Ovvio è che la presunzione di innocenza fino alla condanna è uguale per tutti, tuttavia non si può non dire che in quell’interpellanza parlamentare fossero state scritte delle falsità: come ricostruito subito dopo, non c’era stata nessuna protesta violentissima, nessuna minaccia con olio bollente agli agenti penitenziari, nessuna perquisizione straordinaria durante la quale erano stati trovati oggetti usati come armi.

Ciò che quelle immagini ci hanno raccontato è una vera e propria mattanza, una spedizione punitiva. Chi allora proponeva premi oggi siede in quello stesso Ministero che decide sulle sospensioni dal servizio degli agenti, alcuni dei quali hanno continuato a lavorare anche dopo la notifica dell’avviso di garanzia a loro carico. Del resto, l’allora Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede parlò di un’azione necessaria per ripristinare l’ordine. Dunque, ecco riaffiorare l’idea che il ritorno alla quiete passi per la violenza e l’autorità, perché no, esercitata con comportamenti gravissimi ridotti a delle tirate d’orecchie.

Quando simili affermazioni sono state fatte, gli eventi non erano ancora stati ricostruiti con precisione, eppure la prima reazione dei rappresentanti dello Stato, tutori di quegli stessi cittadini vittime di tortura, è stata schierarsi dalla parte degli aguzzini, giustificando aprioristicamente i loro comportamenti, addirittura chiedendo un premio per gli agenti, per quel valore che, come ci ricorda il senatore leghista, va riconosciuto alle forze dell’ordine in quanto tali.

La scenetta nostalgica di Cantalamessa, che è grato alle suore per gli schiaffi ricevuti e che farebbe quasi ridere se non fosse così grave, è l’espressione lampante di un paradosso che si moltiplica all’infinito nella nostra società e ancor di più nelle istituzioni totali. Lo strumento per riportare l’ordine, o almeno la sua parvenza, sono la violenza, le armi, le punizioni, la repressione, le politiche proibizioniste. Le persone non vengono considerate per ciò che sono, ma per gli eventuali errori che hanno commesso e le loro parole e i loro gesti avranno sempre meno valore di quelle di chi indossa una divisa, anche se il comportamento di quest’ultimo dovesse essere deplorevole.

E continueranno a raccontarci che bisogna avere fiducia nello Stato, in quello stesso Stato aguzzino che si gira dall’altro lato di fronte alle violenze, che regala medaglie e promozioni a chi abusa della propria posizione nei confronti di cittadini che sono sotto la propria tutela, che non riesce ad applicare quel motto tanto cantilenato per cui la legge è uguale per tutti.

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