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Conte rinuncia al seggio di Roma 1: a quando il consenso popolare?

Farouk Perrone di Farouk Perrone
9 Dicembre 2021
in Attualità
Tempo di lettura: 3 minuti
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Oggi come oggi, trovare un politico che intenda rinunciare a un seggio (quasi) certo in Parlamento è roba assai rara, che ci ricorda tanto quei personaggi alla Emanuele Macaluso – che, comunque, parlamentare lo è stato per sette legislature – il quale non voleva mai perdere il contatto con il suo popolo, motivo per cui è ricordato meno come deputato e più come dirigente del PCI, come uomo di partito, come parte fondamentale della nomenclatura di una struttura, forse, irripetibile. Da questo punto di vista, dunque, può essere apprezzabile Giuseppe Conte che pare voglia rinunciare alla corsa per il seggio di Roma Centro lasciato vacante da Roberto Gualtieri.

Per capire un po’ il contesto nel quale ci troviamo, il posto sembra essere destinato a rimanere vuoto, dopo essere già stato abbandonato da Paolo Gentiloni, che ha vinto in quel collegio nel 2018 e che ha abdicato dopo la nomina come Commissario europeo. Poi è stato il turno dell’attuale Sindaco di Roma, che ha vinto le le elezioni mentre era Ministro dell’Economia del Conte bis e ha dovuto rinunciare una volta eletto Primo Cittadino della Capitale. Un seggio che non è indifferente alle diverse fazioni politiche in quanto rappresenta il cuore di Roma, la ZTL, una zona cruciale della Città Eterna in cui il Partito Democratico è inespugnabile.

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Roma Centro, infatti, è la roccaforte del PD e questo spiega anche perché, negli anni, il partito erede del PCI, dunque erede di quel Macaluso, è divenuto un punto di riferimento per le classi agiate, allontanandosi invece dalle tanto discusse – soprattutto in campagna elettorale – periferie. Ma, si sa, a tutti non si può piacere e proprio per questo, proprio per la preponderanza del partito guidato da Letta, ha molto sorpreso la sua scelta di offrire il seggio a Giuseppe Conte.

Una scelta di questo tipo avrebbe implicato il ritorno dell’avvocato del popolo nei palazzi che contano – questa volta a Montecitorio e non a Palazzo Chigi – ma soprattutto avrebbe sortito l’effetto di consacrare definitivamente il matrimonio tra Partito Democratico e MoVimento 5 Stelle, definendo una volta per tutte i confini di questo Ulivo 2.0 da cui sarebbero certamente rimasti esclusi Azione e Italia Viva. Non a caso, non appena è stata fatta filtrare la notizia di un’eventuale candidatura dell’ex premier, Renzi e Calenda – come era ovvio – si sono messi di traverso, con il leader di Azione che ha anche fatto intendere che eventualmente si sarebbe candidato contro lo stesso Conte. E, chissà, se in quel caso la destra lo avrebbe appoggiato.

Rimane il punto interrogativo, perché il capo politico dei pentastellati ha rifiutato la proposta, preferendo al momento continuare a lavorare esclusivamente per la ricostruzione del suo partito. Una motivazione che fa sorgere dei dubbi: chi lo dice, infatti, che non avrebbe potuto rifondare i grillini guidandoli dal Parlamento stesso? In un periodo di particolare turbolenza per i suoi, poterli osservare e controllare dall’interno avrebbe generato una maggiore compattezza e magari avrebbe potuto dare una diversa scossa all’attività parlamentare, ormai emarginata da quando è nato l’esecutivo attuale, dove sono finiti quelli che accusavano Conte di fare tutto da solo, ora che Draghi a stento ascolta i partiti che compongono il suo governo.

Se, invece, la mancata candidatura dell’ex Primo Ministro dipendesse dall’opposizione di Renzi e Calenda, ciò non farebbe di lui un politico coraggioso, molto diverso da quello che il 21 agosto 2019 ci fece intitolare Un giorno da leone dopo 14 mesi da pecora a seguito del celebre scontro in Senato con Matteo Salvini. Se, infatti, all’epoca non ebbe alcun timore di quello che allora era il politico più popolare in Italia, perché averne verso chi è il più impopolare o verso chi è arrivato terzo alle Comunali romane, nonostante una campagna elettorale incessante?

Esistono, poi, modi migliori per sfidare i propri avversari, se non affrontarli alle urne, soprattutto quando uno di questi ha dolosamente provocato la caduta del governo guidato dallo stesso Conte? Probabilmente, la decisione presa è dipesa dalla cautela e dalla prudenza dell’avvocato, ma a volte la mitezza può essere confusa con rallentamento e indecisione, se non si prendono delle scelti dirompenti, che portano a misurarsi – cosa che Conte ancora non ha fatto – con il consenso popolare. Ossia l’unico elemento che può davvero legittimarlo.

Prec.

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