Nella storia, del cinema, della società, della cultura, avviene di tanto in tanto che un particolare anno divenga un cruciale punto di cesura tra un’epoca e un’altra, un passaggio fondamentale che segna un cambiamento, non importa che sia positivo o negativo. Ciò che conta è che in quell’annata si concentrino alcuni eventi significativi che segneranno per sempre il periodo, vuoi per coincidenza, vuoi perché certe situazioni erano ormai mature o, per dirla junghianamente, perché certe cose si erano attivate sincronisticamente nell’inconscio collettivo ed era quindi inevitabile che tracimassero nel mondo fisico.
Il 1969 è stato sicuramente una di queste annate, per certi versi anche più del ’68. Mentre il 20 luglio il mondo assisteva incredulo e sognante al realizzarsi dello sbarco sulla luna, infatti, l’America era ormai impantanata in una guerra, quella del Vietnam, che la maggior parte della popolazione non voleva più. Mentre i reduci cominciavano a tornare mutilati e/o traumatizzati, quindi, il sogno americano si stava trasformando in un incubo dopo gli omicidi dei due Kennedy e di Martin Luther King. Non solo: dopo la tanto esaltata Summer of love del 1967 a San Francisco, durante la quale era sembrato che l’utopia hippie di pace, amore e libertà potesse trasformarsi in realtà, ecco che con la Summer of Blood del 1969, ovvero con gli omicidi Tate-La Bianca commessi dalla Family di Charles Manson, quell’utopia mutava in un’apocalisse. Come se non bastasse, anche i famosi tre giorni di musica e amore di Woodstock (15-18 agosto) trovarono la loro nemesi qualche mese dopo quando, durante il Festival di Altamont (6 dicembre) organizzato dagli Stones, gli Hell’s Angels – gang di motociclisti violenti inopinatamente assoldati dalla band come servizio d’ordine – uccidevano un ragazzo del pubblico e malmenavano chiunque gli capitasse a tiro.
Sul grande schermo, intanto, le cose non andavano proprio bene poiché la vecchia Hollywood dei divi e dei registi dell’epoca classica stava tramontando, incapace di intercettare le aspirazioni e il sentire comune di una nuova generazione che si era ribellata ai padri e che era lontanissima dai Cary Grant e dai Jimmy Stewart, emblemi di un modo di intendere il cinema legato a vecchi schemi. Ci pensò, allora, il ciclone Easy rider, proprio nel 1969, a imporre un nuovo modo di fare e di intendere l’arte cinematografica con un film a basso costo, nato indipendente – o quasi –, che sapeva restituire l’ansia di ribellismo e libertà che stava esplodendo. E, infatti, Hollywood cavalcò subito l’onda con autori nuovi – Coppola, Scorsese, De Palma, Altman, Penn, Peckinpah, Bogdanovich, Friedkin, Spielberg, Lucas – ai quali fu dato campo libero in cerca di opere che ripetessero il miracolo di Easy Rider il cui sottotitolo italiano, non a caso, era libertà e paura. Quasi a sottolineare la brutta fine che facevano i protagonisti in un’America di bifolchi violenti e soprattutto, inconsapevolmente, a evidenziare quell’istinto di morte presente, in modo sotterraneo, nei grandi movimenti ribellistici dell’epoca e che purtroppo trovò sfogo nella scia di sangue che i componenti della Family di Manson si lasciarono dietro.
È in questo quadro, dunque, che si inserisce Tarantino con il suo C’era una volta a… Hollywood, titolo leoniano manco a dirlo, opera che si presenta in un certo senso come la summa del suo cinema o, per meglio dire, come la sintesi del suo amore per la settima arte. La trama ormai è nota: Rick Dalton (Leo Di Caprio) è un attore divenuto famoso con un serial televisivo western, Bounty law, che sta cercando di riciclarsi sul grande schermo senza successo. Viene costantemente accompagnato dall’amico fraterno, nonché stuntman, Cliff Booth (Brad Pitt), decisamente più compassato e risolto che gli fa da factotum, autista e quant’altro. Proprio accanto alla villa di Dalton vengono ad abitare Roman Polanski e la moglie Sharon Tate, in quel momento una delle coppie più in vista di Hollywood: lui reduce dal successo di Rosemary’s baby e lei stella in ascesa che ha conosciuto il marito sul set di Per favore non mordermi sul collo (1967), dopo aver lavorato anche ad altre pellicole di successo come La valle delle bambole (1967). Le traiettorie di questi tre personaggi si incroceranno fatalmente ma solo verso la fine. Il film si svolge in due periodi, febbraio 1969 e poi agosto dello stesso anno, proprio nei giorni in cui accadrà la strage di Cielo Drive a Bel Air, nella quale Sharon Tate, incinta, verrà massacrata con altre quattro persone da alcuni componenti della comune hippie di Manson, che è il mandante.
La nuova fatica del regista di Knoxville si apre con un’intervista televisiva, in bianco e nero, a Dalton e Booth che spiegano il loro rapporto – ricalcato in parte su quello di Burt Reynolds con il suo stunt –, utile a dare delle coordinate allo spettatore. Subito dopo, ci tuffiamo nei colori vivaci dell’epoca e veniamo accompagnati dai due personaggi nel sottobosco delle produzioni televisive e non del momento. Qui abbiamo subito il primo grande cameo, un Al Pacino in gran forma che interpreta Marvin Schwarz, produttore, fan di Dalton, che gli consiglia di rilanciare la sua carriera in Italia tramite gli spaghetti-western che stanno avendo successo in tutto il mondo. Ma a Dalton, fautore di un cinema classico, la sola idea ripugna. Conoscendo lo sconfinato amore che Tarantino nutre per i western all’italiana, l’ironia della messinscena è ben chiara e non richiede ulteriori commenti. Dalton si ritrova, dunque, a fare il bad guy in produzioni dove non riesce più a emergere e perfino un’attrice bambina lo metterà in crisi con la sua grande professionalità.
È in questa prima parte, però, che sorgono i problemi della pellicola: come se Tarantino, preso dal suo amore viscerale per l’epoca e per la Hollywood del periodo, non fosse più tanto interessato alla narrazione quanto piuttosto all’esplorazione partecipata e affettuosa di quel mondo che amava da bambino e che ha saputo riprodurre con tanta cura nelle scenografie, nei dettagli, nei costumi, nelle canzoni – la colonna sonora, come c’era da aspettarsi, è una raffinata compilation con il meglio dell’epoca – e nell’atmosfera palpabile sul set. Ecco, quindi, che seguiamo molti personaggi in lunghissimi viaggi in auto che, seppur affascinanti perché ci immergono letteralmente in un tempo che non c’è più, diventano estenuanti perché non portano da nessuna parte. Dispiace dirlo, ma tutto il primo tempo gira a vuoto, narrativamente parlando. Non basta una gustosa scena tra lo stuntman Brad Pitt e Bruce Lee – allora interprete del famoso serial Green Hornet – a salvare la situazione. Nemmeno le peripezie di Di Caprio/Dalton che cerca di riscattarsi con performance alcooliche sono così interessanti, nonostante alcuni divertenti camei dell’attore in ricostruzioni di film di genere immaginari e dai titoli esilaranti come, ad esempio, I 14 pugni di McClusky – in cui fa un flambé di nazisti come succedeva in Inglorious basterds – oppure l’inedito di Sergio Corbucci Uccidimi subito Ringo disse il gringo, di cui sono state realizzate davvero le locandine. Dalton viene poi inserito digitalmente in un lungometraggio realmente esistito come La grande fuga, uno dei momenti più godibili di C’era una volta a… Hollywood per quanto riguarda la rievocazione. C’è, inoltre, un sarcastico e riuscito Steve McQueen – interpretato da Damian Lewis –, ma tutta questa nostalgia non basta.
Parallelamente, la Tate, interpretata da una convincente e bravissima Margot Robbie, va alle feste e poi al cinema a guardare The wrecking crew – in italiano, Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm, titolo che non sarebbe dispiaciuto alla Wertmuller –, commedia di spionaggio da lei interpretata insieme con Dean Martin. Con i piedi nudi poggiati sulle poltroncine – il feticismo di Tarantino è ben noto –, si gode se stessa sul grande schermo e osserva estasiata le reazioni del pubblico in sala. Sulla valenza meta-cinematografica di questa scena pure è quasi inutile aggiungere altro. Il problema è che una volta capito il gioco, soffermarvisi in modo eccessivo non aiuta affatto. Tarantino, però, è purtroppo senza freni e, preso dal suo sconfinato amore per la materia che sta trattando, si prende i suoi tempi lunghi, mostrandoci a volte dettagli ridondanti – tutto il rituale di Cliff Booth che prepara da mangiare al cane, per esempio –, insistendo eccessivamente su situazioni che potevano risolversi nella metà del tempo.
Come in tutti i film di Tarantino, inoltre, anche in C’era una volta a… Hollywood le apparizioni di suoi attori feticcio in piccoli ruoli non mancano: Bruce Dern, Michael Madsen, Kurt Russell, Zoe Bell – la famosa stuntman protagonista di Death proof –, nonché la presenza di alcuni nomi più o meno famosi, sempre in piccoli camei, come il compianto Luke Perry di Beverly Hills 90210, Emile Hirsch – la star di Into the wild –, il già citato Pacino, nonché stelle in ascesa come la Margaret Qualley lanciata dalla serie Leftovers e da film come Nice Guys, e stelline non più brillanti, come la ex bambina prodigio Dakota Fanning.
Per fortuna, le cose cambiano nella seconda parte, soprattutto quando Pitt/Booth penetra per caso nello Spahn Movie Ranch, il set western televisivo in disuso dove risiede la comune hippie di Manson. Qui si ha la netta sensazione di essere penetrati in un vero e proprio covo del Male. La tensione sale e il vecchio Quentin costruisce una di quelle sequenze in cui tutto è dosato alla perfezione e per le quali è famoso oltre i confini di Hollywood. Infine, la conclusione, efferata, tarantiniana in tutti i sensi, non solo per la violenza fumettistica ma anche perché si ricollega a quel Bastardi senza gloria di dieci anni fa per il modo in cui rimescola le carte della Storia tramite la magia del cinema. Senza aggiungere altro, mai come nel finale di questo lavoro, il regista celebra la potenza salvifica della settima arte che riaggiusta il tutto per come dovrebbe essere.
Non basta questo però, e alcune sequenze riuscite nonché un cast perfetto e in gran forma, a salvare un film che è decisamente al di sotto delle aspettative. E sebbene non possiamo non commuoverci di fronte allo sconfinato amore per il cinema che trasuda da ogni fotogramma dell’opera, ahimè dobbiamo riconoscere i limiti di una pellicola – tra l’altro girata davvero in 35 mm sempre in ossequio alla nostalgia – che si compiace di se stessa e del mondo autoreferenziale che ha creato e che non riesce a dare un movimento interessante ai personaggi e alle loro storie, se non alla fine quando è troppo tardi. C’era una volta a… Hollywood, dunque, è un lungometraggio che vive parassitariamente di rievocazione, la cui unica linfa visionaria e originale si basa sulla filmografia inesistente di Rick Dalton, i cui immaginari lavori diverranno certamente oggetto di culto tra i fan di Quentin.
Mancano i brillanti e paradossali dialoghi che ne erano il marchio di fabbrica, ma non è neanche questo il problema: va bene che un autore voglia affrancarsi da tutto ciò che ha fatto finora purché realizzi qualcosa che cammini sulle sue gambe e non diventi solo un film-nostalgia. Dispiace dirlo – soprattutto per chi scrive che si è sempre lasciato incantare dalle storie del geniale regista – ma forse Tarantino dovrebbe essere meno indulgente con se stesso e ripartire da altro perché ciò che doveva essere il suo Amarcord, purtroppo, fa acqua e non regge il mare come invece faceva il transatlantico Rex di felliniana memoria.