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Carcere di Modena: archiviate le violenze. Quanto conta la dignità di un detenuto?

Giusy Santella di Giusy Santella
19 Luglio 2023
in Attualità
Tempo di lettura: 3 minuti
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Sono trascorsi più di tre anni da quel terribile 8 marzo in cui, in preda a una diffusa preoccupazione per la pandemia da Covid-19 che avanzava, il numero dei morti che arrivava dagli istituti penitenziari era ogni ora maggiore. Tra questi le nove persone recluse nel carcere di Modena decedute in circostanze ancora oggi poco chiare, a seguito di disordini per cui la Procura – dopo ben due anni di indagini a carico di 120 agenti di polizia penitenziaria – ha chiesto l’archiviazione del reato di violenze, lesioni e tortura perché, a quanto pare, le testimonianze dei detenuti sarebbero risultate contraddittorie. L’ennesima sconfitta dopo che era già stata richiesta l’archiviazione dell’indagine prima per la morte di otto detenuti nel 2021 e poi, nel 2022, per la scomparsa di Sasà Piscitelli, avvenuta dopo la sua traduzione nel carcere di Ascoli Piceno.

Le testimonianze riguardanti quella notte erano sfociate nell’esposto di cinque coraggiosi detenuti che avevano fatto luce sulle modalità tutt’altro che legittime – come avvenuto in molti istituti negli stessi giorni – di controllo dei disordini. Sono emersi pestaggi, mancati soccorsi, repressioni violente nei confronti di chi era spaventato almeno quanto chi in quelle ore si trovava a casa, avendo a propria disposizione però solo informazioni frammentarie e d’allarme, lontano dalle proprie famiglie.

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Questo non significa dare per scontato né giustificare quanto avvenuto – che comunque era prevedibile, data la mancata gestione della pandemia negli istituti di pena – bensì chiedere verità in merito a fatti di cui, come accade spesso, non sono state rinvenute registrazioni delle videocamere di sorveglianza. Del resto, di quelle stesse persone non era stata rispettata la dignità né mentre erano recluse né dopo la loro scomparsa, liquidata con “morte per metadone”, ancor prima che questa fosse accertata, omettendo i loro nomi e qualsiasi domanda su quanto accaduto in seguito.

Le visite di Sasà Piscitelli raccontano di una persona in salute per cui addirittura non era stata rilevata l’assunzione di sostanze stupefacenti, nonostante molti dei detenuti avessero addirittura parlato di uno stato di incoscienza. Erano inoltre emersi numerosi indizi di negligenza da parte dell’amministrazione penitenziaria che, a quanto pare, avrebbe disposto il trasferimento dopo la rivolta senza accertarsi delle sue condizioni fisiche e non curandosi al suo arrivo di eventuali segni di violenza. Tutto, accampando la scusa dell’urgenza, diventa possibile. Così la Procura ha ritenuto in quell’occasione che non si potesse dimostrare che un intervento repentino avrebbe potuto evitare la morte, escludendo la colpevolezza dell’ispettore e del medico che non avevano soccorso tempestivamente il recluso, nonostante le richieste di aiuto provenienti anche dai compagni di cella.

Ci siamo oramai abituati all’idea che le parole di chi è privato della libertà valgano meno di altri comuni cittadini e così le testimonianze appaiono contraddittorie, non coincidenti, non sufficienti per formulare un giudizio di attendibilità, senza considerare la grave situazione di emergenza e caos che potrebbero rendere i racconti meno chiari.

Se è vero che la colpevolezza di un indagato prima, e di un imputato poi, va provata oltre ogni ragionevole dubbio, questa richiesta sembra essere una mancata volontà di approfondire quanto accaduto, di seguire quegli indizi che agli occhi di molti appaiono decisamente lampanti.

Intanto rimane in piedi il solo giudizio presso la Corte europea dei diritti dell’uomo presentato dai legali della famiglia Chouchane, uno dei detenuti deceduti e – cosa che ci preoccupa di più – la causa contro alcune delle persone recluse per i danni causati durante le rivolte. E non ci stupiremmo affatto se suppellettili e oggetti meritassero più attenzione e avessero più valore delle stesse vite di chi vive in cella. Ci sembra quasi l’ordinarietà quella in cui la parola d’ordine è repressione, in particolare nei confronti di chi tenta di affermare i propri diritti. Quella in cui la vita umana di persone povere e marginali non vale assolutamente nulla.

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