Vi sentite mai circondati da ottusi? Vi capita mai di discutere animatamente con un gruppo di persone e non comprendere come sia possibile avere certe opinioni? È evidente che le posizioni dei vostri avversari siano piene di errori e pregiudizi, eppure non riescono a rendersene conto. Sono ciechi, guardano il problema attraverso il prisma distorcente delle loro ideologie politiche, del loro background, del loro desiderio di vedere se stessi in una luce positiva e non riescono ad andare oltre. Voi, dall’altra parte, avete l’impressione di guardare la situazione obiettivamente, com’è in realtà. Certo, alcune idee sono modellate sulle vostre esperienze personali o la vostra identità di gruppo, ma nel vostro caso questi fattori portano a un aumento della consapevolezza e non a preconcetti. Bene, vi sbagliate.
Il vostro è un Blind Spot Bias, il bias cognitivo padre di ogni altro bias. Il vostro cervello vi mente, impedendovi di vedere le falle nei vostri ragionamenti. Così, si crea un punto cieco mentale dove si creano tutte le altre distorsioni. Ma perché abbiamo tutti questo bug nel cervello? Perché in realtà serviva. L’uomo è sempre stato circondato da un ambiente ostile, violento e imprevedibile: a sopravvivere erano coloro che riuscivano a prendere decisioni veloci, come scappa o combatti. Troppe informazioni portavano a rimanere immobili, intenti a vagliarle e processarle tutte. Così, si sono sviluppate le euristiche: processi di pensiero automatici che portano alla rapida soluzione di un problema. Non ce ne accorgiamo neanche, eppure il nostro cervello prende delle scorciatoie mentali.
Il rovescio della medaglia sono i bias cognitivi: l’essere ciechi rispetto a certe informazioni per favorire la rapidità decisionale. In breve, i bias sono euristiche fallite. Oggi, tutti noi siamo immersi in un ambiente meno ostile dal punto di vista fisico, ma molto più complesso. Il sovraccarico di informazioni e la manipolazione mediatica sono due costanti, impedendoci di capire il mondo in cui viviamo. O, meglio, lo capiamo, ma non davvero. Mi spiego: tutti (o quasi) sappiamo che il cambiamento climatico sta avvenendo. Sappiamo che è il risultato dell’incremento di emissioni di carbonio prodotte dagli umani. E sappiamo bene che è urgente. Eppure, non cambiamo nulla delle nostre vite.
Qualcuno di voi dirà: E invece no! A me interessa l’ambiente! Non metto mai l’aria condizionata sopra i 25 gradi e chiudo sempre il rubinetto!. Ragazzi, se avessimo la reale, vera percezione di quello che sta succedendo, cominceremmo a urlare. Senza smettere. Lasceremmo i nostri posti da impiegati comunali, banchieri, insegnanti e postini. Torneremmo a casa, abbracceremmo i nostri bambini, e ci metteremmo a piangere.
Il climate change significa l’estinzione della nostra specie, capolinea. I nostri figli non sopravvivranno alla mancanza d’acqua, alle carestie, a nuove pandemie e temperature disumane. Eppure, invece di una dilagante disperazione, di crolli e psicosi collettive, c’è una calma irreale. Usciamo, timbriamo il cartellino, torniamo, e alle sette c’è l’aperitivo. Forse riusciamo a processare l’entità della crisi con il nostro ipotalamo, ma pur scandagliando le informazioni razionalmente, il nostro cervello non attiva l’amigdala, responsabile di paure ed emozioni.
Solo le minacce immediate attivano i nostri sensi. Minacce come il terrorismo, dirette e immediate, ci mettono all’erta, suscitano paura. Invece, problemi complessi e distanti come il cambiamento climatico non ci portano alcuna fitta allo stomaco. Uno dei bias responsabili di questa apatia è l’Hyperbolic Discounting, la percezione che il presente sia più importante del futuro. Nel passato, era più vantaggioso concentrarsi su cosa potesse ucciderci o mangiarci all’istante, e non a indefinite catastrofi future. Così oggi diamo molta più priorità ai nostri piccoli problemi quotidiani rispetto alle grandi sfide di domani: cos’è la fine del mondo rispetto a quel progetto di lavoro urgente da consegnare martedì? Questo bias è l’origine della nostra mancanza di interesse per le generazioni future: vogliamo assicurare ai nostri figli e partner più confort e vantaggi possibili, e non sacrificare il loro benessere per degli indefiniti bis-bis-nipoti.
Il secondo bias che ci interessa è il Bystander Effect. Tendiamo sempre a credere che qualcun altro si occuperà del problema. Questo bias nasce per una buona ragione: se un animale pericoloso si sta avvicinando al nostro villaggio, è inutile riunire ogni singolo cacciatore e guerriero per combatterlo – anzi, esporrebbe la comunità a più rischi. Questo ci fa credere che i nostri leader si occuperanno del problema in atto. L’idea può funzionare in piccoli gruppi – quelli connaturali all’uomo – ma non negli enormi apparati statali, in cui sono i governi che dovrebbero occuparsene. Dagli ultimi vertici internazionali è più che evidente che non succederà, eppure continuiamo a manifestare chiedendo ai politici di fare qualcosa, invece di farla noi.
Ci siamo evoluti per lavorare in cooperazione per difendere il territorio, procacciare cibo e acqua, gestire le risorse collettivamente. Gli antropologi hanno provato che un individuo può mantenere delle relazioni stabili solo con altre 150 persone – un fenomeno noto come Dunbar’s number. Oltre quel numero specifico le relazioni cominciano a collassare, minando le capacità degli uomini di fidarsi gli uni degli altri, quindi di cooperare tra loro per raggiungere degli obiettivi collettivi a lungo termine. In breve, pur accorgendoci della mancanza di azione da parte dei governi, le enormi e intricate strutture sociali in cui siamo incapsulati ci impediscono di coalizzarci e agire concretamente.
Il pezzo forte però è la Sunk-Cost Fallacy. Siamo condizionati a continuare sempre in uno stesso percorso anche di fronte a risultati negativi. Più investiamo tempo, energie e risorse in quella direzione, meno saremo portati a cambiare strada. Che sia un lavoro che non ci stimola più, un corso di laurea sbagliato o una relazione tossica – se non li lasciamo subito, rimarremo intrappolati. Questo bias spiega perché continuiamo a voler dipendere dai combustibili fossili come fonte primaria di energia nonostante la lampante necessità – e possibilità – di passare alle energie rinnovabili. Allo stesso tempo, lo Status Quo Bias ci porta a rinnegare ogni cambiamento troppo radicale perché troppo dispendioso in tempo ed energie.
Ci si mette, poi, di mezzo la disinformazione. Complotti, negazionisti, teorie strampalate e antiscientifiche: perché non ci fidiamo degli esperti sul tema? Qui, abbiamo un gran numero di bias all’opera. Il Confirmation Bias porta alla ricerca (inconscia) di sole informazioni e prove a favore della nostra opinione o paradigma cognitivo, eliminando tutte quelle contrarie prima ancora che vengano processate. L’Halo Effect ci porta a credere alle parole di idoli o sportivi perché arcinoti in un determinato settore, anche se non hanno alcuna competenza scientifica in fatto di climate change. L’Overconfidence Bias ci fa credere che le nostre valutazioni siano sempre accurate, mentre l’Endowment Effect ci porta a credere che se possediamo qualcosa – anche un’idea – questa avrà più valore delle altre.
Il Projection Bias ci dà l’illusione che la gran parte delle persone la pensi come noi, e si tratta di un qualcosa di fondamentale. A causa della social comparison, valutiamo noi stessi guardando agli altri. Se il nostro gruppo di appartenenza – politico, etnico, religioso – non crede al cambiamento climatico, non ci crederemo neanche noi. Al contrario, è stato provato che ogni qual volta vengono pubblicate comparazioni dell’energia utilizzata nelle case di un vicinato, se ci si rende conto che tutti gli altri stanno riducendo i consumi, anche le case con consumi più alti proveranno ad abbassarli.
Come combattere tutti questi bias? Siamo tutti evolutivamente programmati all’estinzione, senza scampo? Un primo passo è conoscere il modo in cui il cervello lavora e cercare di sfruttarlo a proprio vantaggio. Ad esempio, le persone sono più stimolate ad agire in reazione a sfide formulate positivamente e non negativamente. Dire che l’energia pulita potrà salvare X persone crea molta più risposta di moriremo tutti male a causa del cambiamento climatico. Ma la cosa fondamentale è rendere il climate change reale. Tutti sappiamo che è vero, ma ci sentiamo impotenti di fronte a conseguenze lontane da casa. Per portare la gente all’azione, dobbiamo trovare strategie per far sentire il problema come nostro, personale e diretto. Un modo è focalizzarsi sulle questioni locali, cittadine, di quartiere. L’altro è usare tecnologie che rendano i dati sensibili. Per sfidare i bias, dobbiamo sentire il climate change sulla nostra pelle.