Torna sugli schermi cinematografici Kenneth Branagh, di nuovo regista e interprete dell’ennesimo Assassinio a, stavolta Venezia (A Haunting in Venice), il terzo capitolo della celebre serie su Hercule Poirot, un detective che ha scritto la storia del genere, partorito da una mente formidabile come quella di Agatha Christie. Dopo gli acclamati Assassinio sull’Orient Express (2017) e Assassinio sul Nilo (2022), quest’ultima pellicola giunge in sala dal 14 settembre 2023, adattamento del romanzo del 1969 Poirot e la strage degli innocenti, della scrittrice britannica. C’è però un cambiamento di rotta.
A differenza dei precedenti lungometraggi estremamente fedeli all’opera letteraria, questa volta Branagh sceglie di ispirarsi soltanto alla trama originaria, optando per una storia molto diversa e personale, vista anche e soprattutto dagli occhi del regista. In primis, la volontà di affrontare non capisaldi già divenuti film ma un racconto meno noto, permettendosi di cambiare location, ambientandolo a Venezia, e di stravolgere sia le vicende che i toni.
Siamo nel 1947. Poirot si è come preso una pausa e vaga per la città lagunare, isolato dal resto della società. Al suo fianco, soltanto la sua guardia del corpo, che lo assiste nello schivare le numerose richieste di clienti in cerca di aiuto per risolvere casi. Un giorno, però, riceve la visita di Ariadne Oliver, vecchia amica e scrittrice di gialli, colei che lo ha reso famoso scrivendo libri ispirati alla sua figura e ai suoi casi (un palese omaggio ad Agatha Christie). La donna lo invita ad accompagnarla a una festa in maschera nella storica dimora dell’ex cantante lirica Rowena Drake, la quale ha poi organizzato una seduta spiritica con una nota medium che afferma di essere in grado di parlare con i morti. Lo scopo è quello di contattare la sua amata figlia defunta un anno prima a causa di una malattia mentale – aveva iniziato a vedere gli spiriti degli orfanelli rinchiusi e lasciati morire in quel palazzo tempo addietro – che l’aveva portata al suicidio. Un po’ titubante ma desideroso di smontare ogni teoria soprannaturale, Poirot sceglie di accettare.
Ciò che traspare fin dalle prime scene dei trailer è senza dubbio una miscela del classico giallo con tinte quasi horror. Non è chiaramente un film horror come vuole far credere – resta un giallo con la formula del delitto a porte chiuse a cui siamo stati abituati nei film precedenti – eppure Branagh gioca molto sulle atmosfere e sugli stilemi del genere, inserendo anche qualche jumpscare per fortuna sensato, ben contestualizzato. Ad accompagnare tali atmosfere, la colonna sonora composta da Hildur Guðnadóttir, una new entry rispetto a Patrick Doyle, abituale collaboratore del regista e compositore delle musiche dei primi due capitoli della serie.
Il cast abbandona la presenza di nomi altisonanti (ricordiamo Judi Dench, Johnny Depp, Michelle Pfeiffer, Willem Dafoe) per cedere il posto ad attori più di nicchia. Spiccano Tina Fey nei panni della scrittrice, la Premio Oscar Michelle Yeoh come la medium e addirittura un inaspettato Riccardo Scamarcio, il bodyguard di Poirot ed ex poliziotto, che convince abbastanza nella performance attoriale ma meno in quella di doppiaggio – ci rendiamo conto che doppiare se stessi non è facile. Jamie Dornan è il Dott. Ferrier, mentre il ragazzino che interpreta Leopold è il bravissimo Jude Hill, già protagonista di Belfast, altro film sempre di Branagh.
Ma, ovviamente, a spiccare è lui: Hercule Poirot. Kenneth Branagh dimostra ancora una volta il suo immenso amore per il personaggio del detective belga, un uomo poliedrico, complesso, forse la sua migliore caratterizzazione cinematografica finora (e anche la più simile a quella dei romanzi). È palese quanto si diverta a scriverlo, a interpretarlo, a sfaccettarlo a seconda delle situazioni. In quest’ultimo capitolo, ad esempio, abbiamo un Poirot caduto in depressione, svogliato, chiuso in se stesso. Se nel secondo film lo avevamo lasciato piuttosto tormentato dai fantasmi del passato, adesso è completamente decaduto. Non è un caso, difatti, la scelta di Venezia come ambientazione, città simbolo del decadentismo.
Anche il giallo da risolvere è estremamente particolare. L’inserimento del soprannaturale mette in discussione la sua inconfutabile fiducia nella logica e in ciò che è scientificamente dimostrabile ed è interessante vederlo faccia a faccia con dubbi e fragilità, le stesse che si riversano sullo spettatore. Forse anche per questo motivo decide di seguire la vicenda. Perché, in cuor suo, sarebbe davvero disposto a crederci.
Piccola pecca di Assassinio a Venezia, la prevedibilità. Basta essere un po’ avvezzi a questo tipo di trama per giungere facilmente alla scoperta del colpevole, cosa impensabile per il tipo di scrittura della Christie e che, forse, è ascrivibile alla reinterpretazione del regista. Non guasterà la visione del film, sia chiaro, ma certamente non sarà sorprendente quanto i precedenti. Sarà però una goduria assistere Poirot nella scoperta dei vari indizi, unendo man mano tutti i tasselli del puzzle. Perché ciò che è evidente in questo film è quanto l’idea di Branagh giri molto di più attorno alle atmosfere, cupe, tese, messe in scena tramite l’ottima regia, e alle storie dei personaggi.
Storie ben caratterizzate, interessanti, di uomini e donne costretti a fare i conti con i propri demoni, dal disturbo da stress post-traumatico del dottore a seguito della guerra (cosa che lo accomuna a Poirot) al trauma dell’abbandono. I concetti di trauma e sofferenza giocano quindi un ruolo fondamentale, non solo per lo sviluppo della trama ma anche per quello dei personaggi, primo fra tutti Poirot. In meno di due ore, Assassinio a Venezia è in grado, con ironia pungente e il giusto ritmo, di tenere con il fiato sospeso e fare quello che un buon film del genere dovrebbe fare: intrattenere senza troppe pretese.