365 giorni
Cinema

365 giorni: basta con la romanticizzazione della violenza

È stato considerato la versione polacca di Cinquanta sfumature di grigio, ma 365 giorni è semplicemente un film agghiacciante e, al confronto, Christian Grey è un equilibrato galantuomo. Per qualche ignoto motivo, la pellicola è entrata nella top 10 dei più visti su Netflix – piattaforma che l’ha distribuita a causa della pandemia in corso –, balzando addirittura al primo posto in Italia. Un primato di cui avremmo volentieri fatto a meno poiché si tratta non solo di un film brutto ma altresì offensivo, sessista e decisamente pericoloso.

Come per l’opera di E. L. James, siamo di fronte a un adattamento cinematografico del romanzo omonimo scritto da Blanka Lipińska – il che non lascia presagire nulla di buono – ma con risultati, contro ogni aspettativa, ancor più preoccupanti delle mirabolanti avventure di Anastasia e Christian. Qui i nostri protagonisti sono Laura, interpretata da un’anonima Anna Maria Sieklucka e Massimo, interpretato da Michele Morrone, già visto in fiction televisive come Sirene I Medici. Don Massimo Torricelli, per l’esattezza, perché lui è pure l’erede di una nota organizzazione mafiosa.

Il film si apre sull’isola di Lampedusa, dove il bel protagonista sta guardando una donna da un binocolo. Suo padre, in perfetto stile Mufasa de Il re leone, gli dice che un giorno tutto questo sarà suo e di fare attenzione alle donne in quanto sono il paradiso per gli occhi, l’inferno per l’anima e il purgatorio per il portafogli. Neanche il tempo di gustare qualche altro cliché che il malavitoso genitore viene inaspettatamente ucciso dai rivali e il figlio, ferito, sopravvive. Cinque anni dopo, Massimo è il nuovo spietato boss ed è ancora così ossessionato dalla donna spiata con il binocolo da ritrovarla e decidere di rapirla. Il suo piano è tenerla segregata nella sua lussuosa villa siciliana per 365 giorni, con la promessa che non le farà nulla senza il suo permesso e che, se dopo questo tempo lei non si sarà innamorata di lui, la libererà.

La sola trama potrebbe bastare per ricondurre il tutto a un episodio nella media di Criminal Minds. È proprio il voler spacciare questo tipo di storie come romanticismo il problema più maestoso, cancerogeno soprattutto considerando il target di pubblico che bazzica su Netflix e che può restare incuriosito da pellicole provocatorie.

Senza girarci troppo attorno – non si può parlare davvero di spoiler, suvvia – è abbastanza chiaro che Laura finirà per innamorarsi di Massimo, cedendo a lui e sottomettendosi a ogni suo subdolo piacere. Ancora una volta, abbiamo un protagonista bello e ricco, abituato a possedere tutto e tutti. Ancora una volta, abbiamo una protagonista soggiogata e oggettificata. Il tutto spacciato come la storia d’amore del secolo. Ma il film straborda di scene e dialoghi inquietanti che farebbero impallidire i migliori registi thriller.

Tanto per dirne una, quando Laura si risveglia nella villa – con un inspiegabile camino acceso, in piena estate –, una delle prime cose che vede è un gigantesco ritratto del proprio volto appeso a una parete. Assolutamente un ottimo motivo per ritenere quest’uomo un vero psicopatico. E invece no, la cosa non sembra turbarla più di tanto e, una volta resasi conto di non poter fuggire, gli prosciuga la carta di credito facendo un furioso shopping vendicativo. Miglior reazione umana di sempre.

Il comportamento da padre padrone di lui è evidente in ogni scena, dall’ordinarle in continuazione cosa fare o come (non) vestirsi al non avere alcun rispetto per lei in quanto persona dotata di intelletto. La sua frase tipo è «Ti sei persa, bambolina?» – non sentivamo un vezzeggiativo del genere da anni! – e ha un particolare tipo di ossessione per il sesso orale, non importa se consenziente o meno, tanto lui è ricco e potente, le donne non possono opporsi. Un uomo invischiato nella mafia a cui, attenzione, basta far uccidere un criminale che vendeva bambini ai bordelli per essere di colpo avvolto da un’aura di bontà, urlando allo spettatore che sì, è cattivo ma non troppo, ha pure una morale! Non può mancare, poi, la solita solfa della donzella sexy e un po’ alticcia che si caccia nei guai con dei malintenzionati ed ecco che arriva l’eroe, forte e virile, a salvarla da stupro certo. Mentre cavallerescamente la porta via, gli occhi di lei si infiammano e le nostre braccia sprofondano nel pavimento.

Forse la frase più raggelante dell’intero film è la descrizione che Laura fa a un’amica, parlando di Massimo: «È un maschio alfa che sa sempre quello che vuole. È uno che bada a te, che ti difende. Con lui ti senti come una bambina». Non ci sono abbastanza parole per commentare quanto siano malati certi pensieri espressi da una donna che dovrebbe essere descritta come innamorata.

Un altro degli stilemi del genere è il cosiddetto mito della crocerossina. Quella donna che, un po’ consciamente e un po’ no, salva l’eroe bello e dannato, guarendo le sue ferite psicologiche e insegnandogli cosa sia davvero l’amore. Basta. Basta con questa becera caratterizzazione di coppia, basta con queste sofferenze di vita che lo hanno reso così, poverino, un duro ma dal cuore tenero. I traumi non sono mai una giustificazione a comportamenti violenti e psicotici e un uomo del genere non dovrebbe avere alcunché di affascinante.

Nulla si salva neppure riguardo l’aspetto tecnico: pessima la regia del duo Barbara Białowąs e Tomasz Mandes, più vicina a un videoclip che a una pellicola, e pessima la recitazione, fatta di dialoghi ai limiti del grottesco ed espressioni sopra le righe. Anche la colonna sonora stride, appiccicata a casaccio durante ogni scena. Scene magari anche esplicite, rasentando quasi il soft porn, ma in maniera viscida e nemmeno tanto erotica come vorrebbero far credere.

Ciò che viene descritto in film come Cinquanta sfumature o questo 365 giorni, ribadiamolo, non è amore. Non c’è nulla di romantico, di erotico, di sentimentale. Si tratta di un rapporto malsano tra due individui differentemente problematici che andrebbero fermati e aiutati sul serio. In amore non esiste alcun possesso e la parolina magica che fa la differenza è solo una: consenso. Laddove non vi è oppure è stato estorto per abuso di potere, c’è un grave problema: i giochi di ruolo hanno senso se esistono volontà e piacere reciproci. D’accordo certe fantasie un po’ perverse, ma non è possibile distribuire ancora film dove vengono romanticizzati potere, stalking, sequestro di persona, molestie e violenza. L’unico motivo per cui storie del genere sono considerate d’amore è che lui è bello, ricco e potente. E davvero dobbiamo star qui a ribadire che bellezza e denaro non sono attenuanti?

Chi si è schierata pubblicamente contro la pellicola è stata, ad esempio, Duffy. La cantante britannica ha infatti inviato una lettera a Netflix chiedendone la rimozione a causa dei contenuti misogini che inciterebbero allo stupro e al rapimento, esaltandoli piuttosto che condannarli. Stesso discorso per il Codacons, le cui critiche negative hanno rimarcato preoccupazione per il messaggio decisamente ambiguo che potrebbe trasmettere, in particolar modo ai più giovani.

Il cliffhanger finale, purtroppo, distrugge ogni speranza e altri due seguiti pare siano assicurati. Un film non rientrabile neppure nella categoria trash tanto agghiaccianti sono i contenuti. Moralmente aberrante, stracolmo di cliché e stereotipi di genere, dove la mascolinità tossica la fa da padrona, così tanto che il ridicolo non fa più così ridere. Soprattutto di fronte a frasi atroci e nocive, che scavano come un tarlo dentro l’anima di potenziali vittime reali. Frasi come: «A volte lottare è inutile. Devi accettare la situazione».

365 giorni: basta con la romanticizzazione della violenza
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