Le deità del sacerdozio dei cantatori sono modeste, forse piuttosto forme lillipuziane della divinità: il ciclo lunare, il labirinto e le congiunzioni stellari, le stagioni, ciascuno evocato e cantato con un tamburo, come faceva il pastore quando doveva aunare le pecore. Aunare non è unificare ma diventare uno, come sto facendo io con le braccia in cerchio che si fermano sul cuore.
Qui, nel cuore, scalpita lo zoccolo dello zimbaro, il maschio della pecora, il fecondatore. La sua pelle, una volta scuoiato, veniva legata dal pastore sul cerchio di castagno e, percosso, cupamente richiamava le pecore disperse. Credo che le pecore sentissero l’afrore del sangue. Sangue chiama sangue. Una questione, forse, di vibrazione. A volte, quando canto, mi escono muggiti o belati: la voce sale su nel naso, in una sua antica caverna. Con le pecore accorreva anche il gregge dei morti. Questo gregge è tutta una nazione di diseredati che ancora oggi si raduna alle feste. Sono gli umili, gli ignoranti, quelli che hanno bisogni primari di sopravvivenza, gli schiavi che si rivolgono alla Mamma Schiavona, la nera Artemide di Efeso, forse, la dea Syria. Sugli occhi del defunto, ricordo, venivano messe due monete – una specie di tangente) come obolo per l’aldilà. Una zia alla quale chiesi il perché di quel rito mi disse una cosa tremenda: Altrimenti quello non lo fa passare. Mi sono chiesto per anni chi fosse quello. Non è Caronte. È quello, un indicibile, un innominabile. È il guardiano dell’ultima porta del labirinto terrestre. Forse le due monete sugli occhi servivano per un’analogia con il sole e la luce, un segno di riconoscimento e di appartenenza.
Quando canto indosso amuleti d’argento perché la madre luna mi riconosca come suo figlio e perché io le dichiari, con questo luccichio, che le appartengo. O forse l’obolo sottolineava il processo di trasformazione del lavoro e dello spirito: ciò che hai avuto in vita lo devi restituire, il tuo corpo è l’intero capitale. Ciò che hai visto sono gli interessi, il di più che ti è toccato in sorte. C’è sicuramente un atteggiamento da illo tempore in tutto ciò, un tempo sacro, mitico, che nelle pratiche canore trova il suo rituale, strutturato in quattro parti: canto dell’alba, della fatica, della sera, del riposo. A ogni momento corrispondono tecniche canore che ripropongono la fisicità delle singole situazioni. All’alba, ad esempio, quando i contadini sono ombre sullo sfondo di un cielo indeciso tra non-più-notte e non-ancora-giorno, il canto è a distesa ma avvotecato in sottofondo da un tremulo di stelle.
Mi sono sempre chiesto per quale motivo tutte le ninnananne che conosco parlano di un lupo che mangia la pecorella. Ci ritrovo il nero e il bianco, opposti, ma soprattutto qualcosa di ancestrale, come se sogno e realtà si scambiassero i ruoli. Forse Virgilio, con quelle due porte immaginate al tempio di Apollo, costruito da Dedalo, voleva dire proprio questo. Mi sono sempre chiesto, inoltre, come può dormire un bambino pensando a un lupo che sbrana una pecora e, soprattutto, come mai riesce a dormire. Certo, non è che il bambino, in fasce come una pupa, comprenda il significato delle parole: si addormenta perché ascolta una nenia con cadenze ripetitive come le percussioni del tammurraro. Ma chi ha riempito la ninnananna con quelle parole e quelle immagini? Il simbolismo cromatico del bianco (pecora), nero (lupo), rosso (sangue) è abbastanza diffuso. Penso, ad esempio, al De sanguine di Lombardi Satriani e a qualche testo di poesia che mi è capitato di ascoltare.
Del resto, per noi oranti il tempo è sempre quello del sogno, anche quando stavamo in fabbrica, quando abbiamo perso del tutto la cognizione del nostro tempo. L’industrializzazione delle campagne ha tolto dalle mani la falce del contadino per mettervi il martello dell’operaio. Con i Zezi abbiamo cercato di incrociare i due attrezzi, modulando ritmi sulle antiche tammurriate e su quelli della catena di montaggio. Oggi, però, abbiamo perso sia l’una che l’altra dimensione e i saperi sia del contadino che dell’operaio non esitano più perché è rimasto ben poco anche dell’industria, né c’è qualcuno in grado di insegnare nuovamente quelle tecniche di trance. In tal senso, ritengo che il cantatore serva al popolo per dirgli chi è, da dove viene, in modo da consentirgli, se possibile, scelte consapevoli. La nostra filiera di produzione del senso, sia che si lavorasse nei campi sia che si stesse chiusi nel cortile rettangolare ed enorme della fabbrica, era e rimane lavoro-dolore, cioè travaglio. Forse è qui l’origine del canto, in questo fatto che è qualcosa di più della semplice spontaneità. È viscerale, passionale. Gli stessi melismi hanno un ritmo neurovegetativo, con saliscendi come le montagne, vibrati come le foglie dei pioppi, con punte di acuti come i ricci dei castagni. In un canto c’è un’intera foresta e tutti gli oriente. Il canto nasce dalla pancia. Lì c’è il sole. Il canto è la metamorfosi del grido. Quando inizio a cantare do la voce verso Est, perché anche la voce ha punti cardinali, orienta il cuore, i ricordi. So che ricordare significa riportare al cuore. Questo riporto avviene con l’ascolto interiore. Così il tempo parla senza tempo attraverso di noi. Tempo e acqua sono in fondo la stessa cosa. Lo scorrere della voce – non a caso diciamo che la voce si sparge – è il tempo.
L’atto dell’ascolto è detto, fra noi cantatori, ausuliare. Non sono un esperto di linguaggio, ma suppongo – o almeno questa è la mia intuizione e in fondo così mi piace interpretare quella parola – che l’espressione abbia a che vedere con l’ausilio e con lo stare soli. Immaginate un canto che da tremila anni continua la sua estensione di bocca in bocca, di generazione in generazione, trasmesso geneticamente con il seme umano. Nel cerchio del crotile – volevo dire cortile ma mi si è prima presentata l’immagine di un crotalo – e della tammurriata, questo gene trova la sua codificazione. Sapete come si crea il cerchio della tammurriata? Il cantatore o cantastorie inizia a dare la voce narrando un fatto. I suoi coreuti – in genere due, i miei sono gemelli – si collocano l’uno di fronte all’altro, in un centro ideale, e cominciano a danzare l’uno in senso orario, l’altro in senso antiorario, un po’ come la strofè e l’antistrofè che, come sappiamo, ripetono, fin dai tempi di Teseo, la danza che l’eroe, con i giovani ateniesi, elaborò a Delo per ricordare il labirinto, le congiunzioni e i moti delle stelle. Dopo aver compiuto un ciclo, i due antagonisti si fermano a una giusta distanza. I passanti accorrono per sentire il fatto e si sistemano disordinatamente. I due coreuti si muovono come lancette d’orologio e fanno formare il cerchio. A questo punto, può iniziare la musica e si comincia a danzare.
Si formano coppie eterogenee: maschio/femmina, maschio/maschio, femmina/femmina e, secondo l’età delle coppie, le figure della tammurriata cambiano senso. Intendo dire che un conto è una vòteca tra maschio e femmina, un altro è la stessa vòteca tra due giovani – magari ha un’intenzione guerriera e di sfida –, un altro ancora la vòteca tra un vecchio e un giovane. Ecco che allora, all’interno di un piccolo cerchio, sono rappresentate, sotto forma di danza, il vivere e il dialogo sociale. Certamente la danza più bella è quella dei giovani, che amo definire la danza degli arbusti sia perché sono non ancora albero sia perché l’arbusto, sotto il vento della voce, è molto flessibile e agile, una fiamma liquida e verde che, per le sue caratteristiche di fibra, segue o dirige meglio le vibrazioni del tamburo e della voce. La vita, in loro, freme, è frenetica, ricca di phrènos.
Ricordo di aver assistito una volta alla Festa dei gigli di Nola da un balcone, dunque avevo una visione dall’alto. Mi fu ovvio immaginare il giglio come un fallo che entrava in un vicolo-utero brulicante di forme di vita futura. Forse l’utero è il labirinto. Non so se quello che penso è frutto di modalità calcificate del mio cervello o è il risultato di un’analisi, consapevole o meno che sia. È così. E, soprattutto, mi ci trovo bene, sono io e sono gli altri, sciamano e orante, Attis e Cibele. Anche in me c’è un cerchio, una coincidenza di opposti come in questa sirena che si può vedere a palazzo Spinacorona. Che nome, vero? Sembra fatto apposta: questo mostro, un po’ gotico, è situato in un palazzo il cui nome significa corona di spine. È la pàrthenos, l’angelo e la bella figliola che ti chiami rosa invocata all’inizio delle tammurriate. Forse esagero ma noi ragioniamo così, segno sotto segno, scongiuro e spergiuro viaggiano insieme. Spesso, durante una tammurriata, diciamo negra a te, non giocare, consapevoli che la gioia ha il suo doppio nel dolore e viceversa.»
Peppenella Mezacummara
Richiesto delle presumibili relazioni tra fenomeni di disturbo delle personalità, osservabili ancora oggi a S. Anastasia durante il lunedì in Albis, e le pratiche liberatorie del canto, Colasurdo dichiara di conoscere a fondo tale fenomeno ma di non essere edotto in merito. Ci dice che, durante le feste, è sempre presente perché sa, come gli dicono gli oranti, che tramite te arriviamo – per il tramite della sua voce l’orazione giunge alle orecchie di chi deve ascoltarla – e, dunque, non si sottrae alla fatica di cantare suonando la tammorra anche per venti ore di seguito. Testimonia che, dopo varie ore di fatica, si sente sperduto – non accogliuto? –, quasi in trance; non sa chi è, che fa, dove sta, è obnubilato. Ci dice che questo stato di semincoscienza può durare un solo istante o un’ora durante le quali agisce come un automa; gli capita poi, in questo delirio freddo, di avere un momento di lucidità grazie al quale attinge – non sa dire da dove – l’energia (motivazione) per giungere alla fine della festa, segnato dal sole come punto e basta nel cielo senza scrittura. A proposito della trance, riferisce di una sua esperienza:
«Eravamo a Pomigliano. C’era con noi Peppenella Mezacummara, una vecchia zia con seri problemi di flusso sanguigno, arteriosclerosi. Peppenella era chiamata Mezacummara o perché faceva pettegolezzi a metà o perché era considerata un po’ la quasi-comare di tutti. Aveva una prole molto numerosa. Il suo stato di salute era precario e non riconosceva nemmeno più i figli carnali. Dico carnali perché non riconoscere me, quasi-figlio, poteva essere ammissibile ma non sentire la voce del sangue è un po’ più preoccupante. Peppenella era seduta in un angolo, con le mani inerti sulla pancia e la testa appoggiata di lato. Ogni tanto, come se dormisse, scapozziava. Furono fatti i preparativi di una festa e cominciammo la baraonda. Quando attaccai una fronna di carrettiere, in particolare quella, molto nota, cavallo se mi fai questa salita/ ti compro pettorale e sonagliera, Peppenella, come svegliatasi, ma ancora con gli occhi chiusi, rispose con il seguito della strofa e un po’ de profundis: Non ho bisogno della sonagliera/portami solo frumento e carrube. Rispose cantando come se qualcuno avesse messo una mano in un’acqua assopita e l’avesse agitata un poco. Tutti entrammo in un silenzio costernato. Peppenella aprì gli occhi, si alzò, salutò gaia i figli chiamandoli per nome, mi abbracciò con affetto. Non si contavano più i tappeti di meraviglia sui quali continuammo a danzare. Partecipò con calore anche se, onestamente, si capiva che stava comunque in un posto tutto suo. Cambiando, com’è d’uso, registro melodico, la Mezacummara tornò a sedersi nel suo angolo reggendo in mano una bisettrice di buio come una madonna regge una spiga. La vedevamo nello stato stuporoso d’assenza che conoscevamo. Ripresi a bella posta il canto dei carrettieri e Peppenella si svegliò di nuovo. Cos’era successo? Che relazione c’è tra il coma e il risveglio? Non lo so. So però che ho ricordato lei quando sono stato con te a Cuma. Li Peppenella l’hai chiamata Sibilla.»
Prima parte al link: https://www.mardeisargassi.it/tra-sacro-e-tammorra-dialogo-con-marcello-colasurdo-pt-1/