Meglio non sapere è un reportage narrativo che Titti Marrone ha scritto per la nostra memoria e per le nostre emozioni. L’autrice ripercorre una delle pagine più cupe dell’ultimo periodo del nazifascismo attraverso il solido strumento della testimonianza. Una testimonianza differente, incredibilmente schietta, la quale mostra un male diverso, quello visto dagli occhi di un bambino e che, di conseguenza, ne svela il lato più spaventoso. Una storia vera, una delle tante, troppo spesso raccontate; una storia che ripercorre lo strazio di Auschwitz attraverso la vita di tre bambini: le sorelline Tatiana e Andra Bucci e il cuginetto Sergio De Simone.
Marzo 1944: la città di Fiume fu raggiunta dalla guerra, dai bombardamenti e dalle deportazioni naziste. Sorte che toccò a tutti i membri della famiglia Perlow: Rosa Farberow, le figlie Sonia, Gisella e Mira, il figlio Jossi e i nostri tre piccoli protagonisti.
Il campo di concentramento vissuto dagli occhi dei bambini non fu poi così diverso da quello visto dagli adulti, anzi, la separazione dalla madre divenne per le due sorelline Bucci un vero e proprio sollievo dal momento che la trasformazione, subita in quei luoghi dal corpo e dalla mente di Mira, la rese un’estranea da dimenticare. Il legame che univa Tatiana, Andra e Sergio, invece, fu sempre ben saldo per tutti e due gli anni che trascorsero nel lager. In particolar modo, Tatiana iniziò a preoccuparsi molto della sorellina Andra, sentendo sulle spalle una forte responsabilità e, allo stesso tempo, un desiderio di protezione.
Per i tre bambini il tempo della spensieratezza era ormai finito e un’inquietante abitudine prese posto nei loro occhi e nella loro quotidianità: quella dei corpi ammassati, delle urla strazianti, degli stracci che non proteggono dal freddo, delle lotte per non perdere il proprio cucchiaio o per avere un tozzo di pane, quella del giocare non più a nascondino, bensì alla simulazione dei tedeschi che uccidono gli ebrei.
Nonostante i terribili momenti vissuti, che segnarono per sempre la vita dei piccoli protagonisti, anche in luoghi come Auschwitz l’umanità delle persone – vera garanzia di sopravvivenza – riuscì a cambiare qualcosa. In un’intervista rilasciata a Titti Marrone infatti, le due sorelle, ormai adulte, hanno raccontato di quando una blockova, una guardiana del lager, le prese da parte dicendo: “Verranno degli uomini, raduneranno tutti voi bambini e vi diranno: chi vuole vedere la mamma e tornare con lei, faccia un passo avanti. Voi dovete rimanere ferme al vostro posto, non rispondere assolutamente nulla”. I tedeschi, in questo modo, avevano escogitato una malefica trappola per selezionare “a caso” un gruppo di bambini da usare per crudeli esperimenti.
A nulla servì, invece, avvisare anticipatamente il cuginetto Sergio, poiché tanto forte era il suo legame con la madre, che fece fiducioso un passo avanti: il passo di un bambino ancora capace di credere negli uomini. Un passo che separò per sempre le loro le strade, conducendo verso un destino sereno le sorelle Bucci e verso una sorte atroce il piccolo Sergio.
Il 27 gennaio 1945, la liberazione da parte dei russi fu per le bambine un giorno come un altro. Portò solo più cibo e un buco profondo nei loro ricordi. Un anno e un mese trascorso a Praga, ormai lontane dal campo di concentramento, non riuscì a far riaffiorare in loro l’essenza dell’infanzia. Ciò fu possibile, però, quando vennero trasferite nel cottage di Weir Courtney a Lingfield – un’oasi di pace in una cittadina nella campagna inglese del Surrey – che accolse, tra il marzo e il dicembre 1946, ventiquattro bambini, tra i quattro e i quindici anni, scampati allo sterminio nazista.
Fu l’incredibile impegno di Alice Goldberger, Sophie Husher, Edith Lauer, Gertrude Dann, Ruth Fellner, Manna Weindling e molti altri a far sì che – con pazienza e devozione – quei piccoli, diventati adulti troppo presto, potessero tornare adessere ciò che erano realmente: bambini. Fu una missione costante che permise, inoltre, alle sorelle Bucci – così come a molti altri – di riabbracciare, nove mesi dopo, i propri genitori.
Sergio De Simone, invece, non fece mai più ritorno a casa. Fu assassinato, insieme ad altri diciannove bambini ebrei, nei sotterranei di una scuola di nome Bullenhuser Damm nel cuore di Amburgo. Un medico SS, Kurt Heissmeyer, li aveva portati nel lager di Neuengamme e utilizzati come cavie per i suoi esperimenti sulla tubercolosi.
Quando, però, le truppe alleate giunsero ad Amburgo, questi bambini furono considerati come delle prove compromettenti da far scomparire. Decisero, quindi, di eliminarli. Non doveva rimanere nessuna traccia delle incisioni sulla pelle, delle iniezioni di batteri della TBC nelle ghiandole ascellari e di tutto l’orrore creato in quel lager. Nella notte tra il 20 e il 21 aprile 1945 furono così impiccate quarantotto persone, tra cui anche i venti piccoli. I loro corpi furono poi trasportati altrove e cremati, cancellando in modo definitivo le prove di quelle terribili azioni.
Un giornalista tedesco, Günther Schwarberg, dopo anni e anni di ricerche, denunce, lotte e difficoltà, riuscì a portare alla luce tutta la verità, e a ottenere l’incriminazione di Arnold Strippel, capitano delle SS e principale responsabile della strage, rimasto impunito fino al 1983. Il giornalista dedicò la sua vita ai bambini di Bullenhuser Damm rendendo possibile la creazione di un memoriale dove, ogni anno, si svolge una cerimonia commemorativa. Inoltre, grazie al suo intervento, i parenti dei bambini uccisi quel giorno, hanno potuto fondare l’Associazione dei bambini di Bullenhuser Damm, al fine di poterne mantenere viva la memoria. Per di più, Günther Schwarberg e sua moglie, l’avvocatessa Barbara Hüsing, si impegnarono costantemente nella ricerca dei genitori o dei parenti in vita dei venti bambini.
Gisella De Simone, ormai tornata in Italia, per diversi anni proseguì, invece, con la ricerca di suo figlio Sergio, nel disperato tentativo di ricevere sue notizie. La speranza accesa dal ritorno delle nipotine divenne una fiamma invincibile che mai si spense nel suo cuore. A nulla servì la lunga lettera scritta dal giornalista Günther Schwarberg che, con parole estremamente delicate, comunicò a Eduardo e Gisella De Simone la morte del loro bambino.
La donna, infatti, per molti anni continuò a cercare suo figlio, nella ferma convinzione che lui fosse soltanto disperso. Gisella preferì non sapere, non accettare, ciò che forse, in cuor suo, già sapeva. Nemmeno il viaggio in Germania, che la portò proprio nel luogo dove Sergio perse la vita, riuscì a strapparle via quella certezza indelebile, ossia che la vita del figlio scorresse ancora da qualche parte nel mondo.
Gisella oggi riposa alle spalle dell’ormai scuola-museo di Bullenhuser Damm, dove a ognuno dei venti bambini addormentati nel vento è stata dedicata una lapide con sopra una foto, compresa quella del suo piccolo Sergio.