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“The Post” di Spielberg e la coscienza infelice della democrazia

Vincenzo Villarosa di Vincenzo Villarosa
9 Novembre 2021
in Cinema
Tempo di lettura: 3 minuti
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Nel giugno del 1971, il Washington Post, sulla scia del New York Times e di altri importanti giornali statunitensi, intraprende una lunga e sofferta battaglia per la libertà d’informazione, garantita dal Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America.

Da tanti anni, gli USA sono “impantanati” nella maledetta guerra del Vietnam per contenere l’espansionismo comunista, ma da tempo gli studi del Pentagono hanno dimostrato che quel conflitto gli americani non lo vinceranno mai. I vertici dell’amministrazione statunitense ne sono al corrente – in maniera trasversale alle forze politiche che si contendono il potere –, tuttavia le dichiarazioni ufficiali dei leader assicurano i progressi dell’azione militare, convinti della vittoria finale. I Pentagon Papers, i documenti del Pentagono redatti in migliaia di pagine che testimoniano la verità nascosta al mondo, e soprattutto alle migliaia di giovani vite che vanno a morire nel sudest asiatico, però, finiscono nelle mani di una “fonte” segreta e arrivano ai maggiori quotidiani.

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Questo dramma politico e sociale ce lo racconta un maestro del cinema, Steven Spielberg, nel suo The Post che mette in scena il tormentato rapporto tra Katharine Graham, prima editrice donna del Post, e il direttore Ben Bradlee, ma soprattutto quello tra loro due – interpretati da Meryl Streep e Tom Hanks – e i sostenitori finanziari che cercano di controllare il giornale non soltanto dal punto di vista economico.

Alla fine, la Graham prenderà la decisione di pubblicare i documenti, sfidando la possibile incriminazione e il conseguente affondamento della testata che dirige. A nulla serviranno le manovre di Nixon e dei suoi collaboratori per fermare la libera informazione democratica.

La stampa deve servire chi è governato e non chi governa è una delle frasi lapidarie con cui si conclude la pellicola, anche se le ultime immagini ci raccontano di un altro caso della lotta per il potere che sta per scoppiare: il Watergate.

Il film di Spielberg si snoda con il ritmo del thriller, ma il convinto e giusto inno alla libertà di stampa non ci persuade del tutto, mentre il finale trionfalistico ci dà perfino fastidio. È un’occasione persa, forse, per ribadire il discorso sul “gioco sporco” della politica – come il regista ha fatto, con altri esiti estetici e di contenuto, nel suo Lincoln del 2012 – che esiste anche quando si servono ideali nobili, quali quelli della fine della schiavitù o della libera informazione.

In tempi più recenti, abbiamo assistito alla tragedia dell’invenzione delle armi di distruzione di massa per esportare la democrazia in Paesi governati da feroci dittatori, per poi scoprire che la guerra definita “democratica” si sostanzia e agisce usando la menzogna, per riequilibrare assetti geopolitici che servono soprattutto il potere e il business industriale e finanziario sovranazionale a cui non interessano né la pace né la democrazia.

Anche questa volta e con molta fatica, l’informazione indipendente ha smascherato quelli che imbrogliano sui tavoli della politica e, purtroppo, quasi sempre vincono. Il nodo problematico è che anche la stampa libera fa parte di quel sistema che produce un modo di fare politica e di organizzare la vita sociale solo nominalmente democratico.

In breve, se la democrazia è soltanto un metodo da rispettare ma non riesce a tradursi in democrazia sociale, vale a dire in pratiche comunitarie caratterizzate da una reale eguaglianza giuridica, economica e sociale di tutti i cittadini, in favore delle loro concrete opportunità di vita, l’informazione potrà sempre e solo “testimoniare” la coscienza infelice di chi continua a credere nella democrazia, ma sa di vivere in un sistema che di continuo produce la realtà economico-sociale della sua sconfitta.

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