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Il Regno delle Due Sicilie. Tra nostalgia e storia duecento anni dopo

Mariaconsiglia Flavia Fedele di Mariaconsiglia Flavia Fedele
11 Giugno 2021
in Attualità
Tempo di lettura: 3 minuti
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L’otto dicembre del 1816 con la Legge fondamentale del Regno delle Due Sicilie, re Ferdinando I di Borbone dichiarava i suoi territori al di qua e al di là del Faro – l’attuale stretto di Messina – uniti in un’unica entità statuale. Napoli, dopo ben quattrocento anni, tornava ad allargare i suoi confini di capitale.

Già nel 1442, infatti, Alfonso V d’Aragona era stato Rex Utriusque Siciliae, seguito da Ferdinando il Cattolico, prima che il Mezzogiorno si dividesse di nuovo fino al Congresso di Vienna del 1815. Quest’ultimo, infatti, sancì l’unione ufficiale dei possedimenti del monarca francese nel futuro territorio italiano che si sarebbe concretizzata di lì a un anno. Una delle epoche più disquisite nella storia dell’intero Paese stava avendo inizio.

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A distanza di duecento anni, infatti, il periodo che va dal 1816 al 1861 – anno dell’Unità di Italia – resta tra i più discussi, mitizzati e rimpianti di sempre. Una semplice ricerca sul web è sufficiente ad accorgersi di quanti siti, pagine e libri siano dedicati nostalgicamente al dominio borbonico. Ma non solo. Numerosi sono anche i movimenti e le associazioni. Tutti con un unico scopo: la riapertura del dibattito storico sull’unificazione politica della penisola e sulle conseguenze che essa ha avuto per il Meridione. Forte, infatti, è la convinzione che l’accorpamento e la centralizzazione del potere nelle mani dei Savoia abbia condizionato e, di conseguenza, impoverito lo sviluppo delle regioni del Sud, fino a quel momento all’avanguardia rispetto a gran parte d’Europa.

Che il lungo periodo francese sia stato florido da molti punti di vista è innegabile. Sono tanti, infatti, i primati raggiunti in ambito industriale, economico, giuridico e non solo. Basti pensare, su tutti, alla prima ferrovia italiana (tratta Napoli – Portici, residenza estiva del re) o all’impianto di illuminazione a gas di città, proseguendo poi con la promulgazione del primo Codice Marittimo italiano o con l’istituzione di un incipiente sistema pensionistico attraverso il Codice per lo Regno delle Due Sicilie. Ma sono solo alcune delle innovazioni di cui tutt’oggi i malinconici si vantano, tanto da dare vita a un vero e proprio sentimento neoborbonico e meridionalista.

I più estremisti, però, non si fermano qui. Si auspicano, infatti, “un risorgimento meridionale e la creazione di una classe dirigente che abbia piena consapevolezza della propria identità e del proprio passato” per giungere, infine, a una novella separazione dal resto del Paese, certi di poter ritornare ai vecchi fasti. Un po’ come la “libertà” agognata dagli aspiranti padani.

Tuttavia, è innegabile pure che i documenti ufficiali – bollati come faziosi – ci presentino una realtà diversa da quella dipinta sin qui. Nonostante i meriti riconosciuti, infatti, dati statistici e non solo, dimostrano che, all’atto dell’annessione alla neonata Italia, il Regno delle Due Sicilie deficitasse di infrastrutture, collegamenti ferroviari – inesistenti in Sicilia, ad esempio – e, soprattutto, di norme a tutela del lavoratore. Al datore di lavoro spettava stabilire condizioni lavorative, orari e salari che non accontentavano gli operai (“essendo nelle Due Sicilie più facile e meno caro il vitto, non è il caso di apportare variazioni salariali”). Lo sciopero, invece, poteva essere punito come “atto illecito tendente al disturbo dell’ordine pubblico”.

Ciò nonostante, gli studi più allarmanti riguardano l’ambito scolastico. La proporzione tra numero di scuole e numero di abitanti risulta, infatti, piuttosto imbarazzante, con percentuali di analfabeti estremamente alte, nonostante nella capitale vi fosse uno dei maggiori centri filosofici, storici e giuridici d’Europa, grazie a molteplici menti eccelse. Per citare Galasso “non furono i sovrani borbonici a rendere grande la Napoli del Settecento, bensì, al contrario, fu questa Napoli a dare ad essi la possibilità di giocare un ruolo anche superiore alle loro capacità e a conseguire una fama superiore ai loro meriti”.

Il “re lazzarone” – così veniva chiamato Ferdinando I di Borbone – e  il suo successore Ferdinando II – celebre per la sua avversione nei confronti degli scrittori, i pennaruli – figli della Rivoluzione francese, sapevano bene che un popolo colto è un popolo che pensa. E un popolo che pensa non può essere amico del potere, lo contrasterebbe. Lo sapevano allora e lo sanno oggi i nuovi monarchi mascherati da politici. Lo sapeva pure Giovenale. Panem et circenses. Pettegolezzi e pallone. Se solo sapessimo leggere la storia…

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