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Regionali: astensionismo e sfiducia in una politica disinteressata

Antonio Salzano di Antonio Salzano
21 Gennaio 2024
in AZETA di Antonio Salzano
Tempo di lettura: 4 minuti
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Arriverà il giorno che si recheranno alle urne solo i candidati, le famiglie dei candidati, gli amici dei candidati. È la “democrazia” con le sue regole. Sarà così come afferma il mio amico Carlo oppure quanti hanno maggiori responsabilità nella gestione della cosa pubblica un giorno, seppur lontano, capiranno che farsi da parte è l’unica soluzione possibile per salvare il Paese? politica

La voragine creatasi tra una classe dirigente senza credibilità e i cittadini è giunta a un punto di non ritorno e l’aumento esponenziale di quanti ormai non esercitano più il diritto di voto è la prova più evidente del fallimento di una politica ridotta ad amministrare il presente come un condominio, incapace di guardare al futuro tradendo non solo gli elettori ma, peggio, anche i principi basilari della Costituzione.

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Le recenti elezioni nelle due principali regioni italiane hanno ancora una volta portato a galla non solo quell’astensionismo divenuto ormai il più grande partito del Paese, ma anche l’assoluta indifferenza di quanti hanno premiato, come nel caso della Lombardia, quella parte della politica responsabile del disastro della sanità nel periodo della pandemia con gli oltre 45mila morti – come se non fosse bastata l’era Formigoni – affidando agli stessi amministratori la gestione del Pirellone per i prossimi cinque anni. Sarebbe ingiusto, tuttavia, additare alla sola Lombardia l’incomprensibile espressione di voto a favore di questa classe dirigente, dopo che al governo sono presenti gli stessi partiti, gli stessi rappresentanti che hanno portato il Paese alla bancarotta con gli esecutivi Berlusconi.

Non è da meno il Lazio, con un record di astensionismo altissimo e l’incapacità dimostrata, tra le altre cose, nella gestione del problema rifiuti in dieci anni di amministrazione del centrosinistra. Si fosse votato in tutte le altre regioni si sarebbero riscontrati certamente gli stessi dati, una disaffezione, un distacco, una sfiducia più che giustificata nei confronti di chi, dall’operazione Mani pulite, ha evidenziato tutta la sua inconsistenza e inadeguatezza a risollevare il Paese, mettendo in atto le riforme necessarie da sempre annunciate e mai realizzate, se non per fini personali come nel caso dell’ex Cavaliere o con rattoppi di comodo. Una vittoria scontata, dunque, anche grazie alle inesistenti opposizioni che, seppur si fossero presentate unite, non avrebbero avuto i numeri sufficienti per arginare l’ulteriore avanzata della destra.

Un Paese che rifiuta il cambiamento, il nostro, incapace di esprimere elementi di novità, di cogliere proposte alternative ritenute forse ancora troppo ancorate a vecchie logiche e ideologie, schemi antichi che l’elettorato ha più volte respinto. Elementi di novità che purtroppo, si è dovuto constatare, hanno tradito il favore popolare proseguendo e adeguandosi a logiche della peggiore politica piccola e becera a cui anche il M5S, nella sua fase post-Di Maio, pur nel tentativo di mostrare un volto diverso, continua a rifarsi con alleanze territoriali che persino i propri elettori faticano a comprendere.

Difficile indicare quello che comunemente viene definito Terzo polo come elemento di novità, una strana accoppiata che, come abbiamo più volte espresso, rappresenta una mina vagante e l’inconsistenza sul piano di qualsiasi contributo costruttivo a un ipotetico dibattito sul cambiamento.

Soddisfatto, invece, il Segretario Enrico Letta nel rappresentare il primo partito di opposizione, quanto basta alla forza uscita sconfitta dalle recenti elezioni politiche e che da ben cinque mesi è impegnata in una campagna elettorale interna tra candidati di cui è difficile se non impossibile tracciare le differenze, fatta eccezione per Cuperlo che opportunamente parla di rifondazione: «Sarà un processo faticoso e bisognerà accettare le rotture necessarie. Abbiamo perduto anche la reputazione».

E, a proposito di reputazione perduta, è fin troppo garbato il candidato senza alcuna speranza a guidare il Partito Democratico, riferendosi alla sola sua fazione politica. È l’intera classe dirigente che ha ridotto i partiti o movimenti che siano a centri di potere, di distribuzione di incarichi e favori, svuotati del tutto da ideologie a cui far riferimento. E la destra lo ha capito fin troppo bene, non rinunciando alle proprie origini e agli amori nostalgici, cominciando dalla seconda carica dello Stato passando per la terza e poi alla stessa Presidente del Consiglio. Un collante forte e necessario per mostrarsi come piace a un certo Paese.

Di strada ce n’è molta da fare, ma non sembra che ci siano volontà e voglia di cavalcare il cambiamento, tutti uniti a foraggiare una guerra nella quale siamo dentro fino al collo. Non una sola proposta seria, concreta di pace, non una sola parola di verità fatta eccezione di colui che pur armando l’Ucraina proprio non ce la fa a mentire fino in fondo.

In altri tempi neanche troppo lontani, il governo sarebbe caduto un minuto dopo, ma la voglia di potere è troppo forte per gesti di coerenza politica così alti. E, poi, quando ricapita un’altra occasione come quella che stiamo vivendo con tre opposizioni, si fa per dire, silenziose e accondiscendenti? Avanti tutta e alle elezioni europee del prossimo anno può essere che abbia ragione il mio amico Carlo: voteranno candidati, famiglie e amici che andranno a rinfoltire quel sistema famiglia già ampiamente collaudato.

Prec.

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