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Reginette e re bambini: l’infanzia rubata

Sarah Brandi di Sarah Brandi
30 Giugno 2021
in Attualità
Tempo di lettura: 3 minuti
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Nel film Little Miss Sunshine (2006), la piccola Olive Hoover parte insieme alla sua famiglia per un avventuroso viaggio con un vecchio furgoncino Volkswagen T2, direzione California, per partecipare alla finale nazionale di un celebre concorso di bellezza. La protagonista, però, è decisamente diversa da tutte le altre reginette che competono con lei: un po’ piena e molto più naturale, la bambina poco ha a che fare con il mondo di lustrini, finzione e apparenza delle sue sfidanti e con una realtà, quella dei concorsi di bellezza per piccini, che in America è popolarissima e che negli ultimi anni ha acquistato notorietà anche in Italia. Se negli Stati Uniti è ormai all’ordine del giorno l’usanza dei Child Beauty Pageant, infatti, allo stesso modo lo è diventato recentemente nel nostro Paese, dove su Facebook vengono continuamente sponsorizzati eventi a livello locale in cui si invitano le famiglie a far gareggiare i loro pargoli per decretare chi sia il più bello e dare la possibilità al vincitore di partecipare a sfilate di moda o film.

Chi non ha mai assistito a una di queste manifestazioni o non ha mai visto la foto di uno dei concorrenti penserà che non ci sia niente di male che dei genitori facciano partecipare la propria prole a questi concorsi, addirittura potrebbe pensare che per i ragazzini siano divertenti e che vedano il tutto come un gioco. Tuttavia, immagini di bambine che indossano tacchi alti e che portano ciglia finte possono già suggerire la crudeltà e il valore poco educativo di questa tipologia di gara. Per spiegare l’inutilità di tali eventi si può partire da un presupposto: i concorsi di bellezza per bambini sono delle vere e proprie competizioni. In generale, non si può dire che partecipare a delle sfide non faccia bene agli infanti, anzi esse potrebbero persino risultare un modo per insegnare loro che la costanza e l’impegno sono la chiave per ottenere ciò che si vuole, pure quando il desiderio è uguale a quello degli altri. Allo stesso tempo, però, bisogna sottolineare che è giusto che questo spirito competitivo venga insegnato relativamente a valori positivi. È corretto trasmetterlo, ad esempio, quando attraverso un’idea di gara si incita il bimbo a sviluppare un talento, cosa che durante i concorsi di bellezza non succede affatto, puntando essi alla conquista di una corona che decreti chi tra tutti i partecipanti sia, per l’appunto, il più bello: gli aspiranti vincitori, dunque, vengono valutati per criteri come il portamento, la fiducia e l’individualità, tutte qualità che poco hanno a che fare con la vera essenza di un bambino che dovrebbe, invece, potersi sentire libero di inciampare o essere timido.

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Atroce in queste competizioni è che nel loro corso i genitori e i manager dei piccoli non li lascino apparire per quello che sono: i bambini non sfilano con il loro aspetto naturale, magari vestiti da fate o supereroi, bensì vengono pesantemente truccati – talvolta così tanto da modificarne i lineamenti – e vestiti come se fossero adulti, sottraendo loro quella freschezza che dovrebbe caratterizzarli. In questo modo, a farla da padrone è la non accettazione di quel che si è ma, soprattutto, il messaggio che per essere ben visti bisogna conformarsi a determinati standard, diseducando quindi alla diversità. I più piccoli, allora, vengono portati sulla strada della non consapevolezza di sé e incitati intrinsecamente a sviluppare turbe psicologiche e disturbi alimentari. Per di più, ai principini e alle principesse di beltà viene richiesto di  comportarsi e camminare in maniera seducente: ciò che accade è una vera e propria sessualizzazione dei fanciulli che si ripropone ogniqualvolta essi vengono ritratti su riviste di moda in atteggiamenti poco infantili.

La realtà dei concorsi di bellezza, dunque, nasconde dietro i suoi luccichii un mondo fatto di lacrime e perdita dell’innocenza. Essi diventano per i ragazzini che vi partecipano il mezzo attraverso il quale spingerli a una crescita prematura, a un’adultizzazione forzata che li fa entrare in un universo in cui i trucchi non sono più un gioco per trasformarsi in qualcuno di diverso e in cui i tacchi che portano non sono quelli troppo grandi della madre, ma l’occorrente per solcare un palco che insegna che nella vita per avere successo è sufficiente essere belli. Un universo in cui già a pochi mesi l’unica cosa indispensabile è soddisfare i sogni repressi di un genitore che preferisce vedere il proprio figlio sfilare su una passerella con un sorriso forzato, piuttosto che correre felice in un prato.

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