Il mese scorso è stato approvato in via definitiva il disegno di legge che introduce la cosiddetta autonomia differenziata, ossia la possibilità per le Regioni di gestire in proprio alcune materie che attualmente ricadono nella competenza esclusiva dello Stato, così come stabilito dall’art. 117 della Costituzione.
La proposta di legge è stata fortemente voluta dalla Lega e in particolare dal Ministro degli Affari Regionali Calderoli, tuttavia non si tratta altro che di una legge attuativa di principi stabiliti in Costituzione con un’iniziativa di riforma del Titolo V promossa nel 2001 da un governo di sinistra, che introduceva all’art. 116 proprio la possibilità di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia da attribuire in materie individuate con una legge dello Stato approvata dalla maggioranza assoluta dei componenti delle Camere. Se questa previsione mirava in origine a devolvere la competenza di talune materie giustificate dalla specificità territoriale, nelle mani del Governo Meloni questa diviene strumento per delegare, anche le materie più rilevanti, a tutte le Regioni che ne facciano richiesta, potenzialmente minando quel principio di unitarietà dello Stato sancito dalla stessa Costituzione.
Il disegno di legge è stato approvato con 172 voti favorevoli, 99 contrari e 1 astenuto (per l’approvazione al Senato gli astenuti erano stati molto di più) e durante la discussione i toni sono stati piuttosto concitati, tanto da arrivare a una vera e propria rissa in Aula. Al di là del cattivo gusto di simili scene in un Parlamento, questi tafferugli dimostrano memoria corta: la questione meridionale non nasce oggi e la situazione attuale è frutto di anni di disinteresse nei confronti non solo del Sud ma in generale di tutte le classi sociali – ahinoi non è un termine anacronistico – più povere e abbandonate. Ciononostante, quella adesso prospettata è la vera e propria trasformazione in uno Stato confederale, una riforma che insieme al premierato trasfigura di fatto tutto l’impianto costituzionale della Repubblica italiana, che difficilmente potrà ancora essere definita tale. La legge è stata poi promulgata immediatamente dal Presidente della Repubblica, che non ha quindi rilevato alcun profilo di criticità o eventuale anticostituzionalità.
L’applicazione effettiva dell’autonomia differenziata è comunque ancora lontana se si considera che essa è stata approvata senza la preventiva definizione dei LEP, ossia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono necessariamente essere assicurati su tutto il territorio nazionale. Solo dopo, si potrà procedere alle richieste delle Regioni e alla firma delle relative intese.
Uno degli scenari che si prospetta adesso come possibile è il tentativo del referendum abrogativo che, ricordiamo, può essere proposto da cinquemila elettori o cinque Consigli Regionali e prevede un quorum di partecipazione pari alla maggioranza degli aventi diritto. Venerdì scorso il quesito referendario è stato depositato presso la Corte di Cassazione che ne vaglierà l’ammissibilità, in attesa di raccogliere le firme degli elettori o il sostegno di almeno cinque Consigli Regionali entro il 30 settembre. Su quest’ultimo punto si sta tentando un’accelerata dopo l’annuncio delle dimissioni da parte del Presidente dell’Emilia-Romagna Bonaccini per la sua nomina a europarlamentare. Se il Consiglio Regionale non riuscisse a pronunciarsi prima delle sue dimissioni, le Regioni governate dal centrosinistra passerebbero a quattro e sarebbe quindi difficile ottenere il sostegno necessario allo svolgimento del referendum.
Le regioni del Nord, il Veneto con a capo Zaia tra tutte, esercitano già le loro pressioni per attuare la riforma, almeno in quelle materie per le quali non bisognerà definire i LEP. La Campania è pronta a riunirsi per l’indizione del referendum, tuttavia il Governatore De Luca ha già annunciato che percorrerà anche la strada della discussione delle materie su cui sarà possibile ottenere la delega: una modalità un po’anomala per ostacolare la riforma.
La memoria corta, a ogni modo, caratterizza tutti gli accaniti oppositori dell’autonomia differenziata, gli stessi che appena qualche anno fa definivano il regionalismo come una possibilità per le aree più avanzate di esprimere meglio le proprie capacità economiche senza dovere invece contribuire in una certa misura a compensare gli squilibri e le arretratezze del Sud. La riforma interviene in un’Italia di fatto già frammentata, e in cui probabilmente il regionalismo non ha dato i suoi frutti migliori, e che quindi avrebbe avuto bisogno di maggiore coesione e non di ulteriore separazione.
Se l’attribuzione di competenze specifiche alle istituzioni più vicine ai cittadini trova giustificazione nel fondamentale principio di sussidiarietà e nella potenziale maggiore capacità di queste istituzioni di recepire le esigenze e canalizzarle verso la risposta più efficace, uno Stato che è tale non solo coordina le istanze e le riporta a un’unicità, ma soprattutto si fa carico delle realtà territoriali che rimangono indietro.
I livelli essenziali delle prestazioni non possono restare una mera enunciazione di principio, mentre basta spostarsi da Nord a Sud per rendersi conto che non tutti i cittadini hanno accesso a pari diritti, prestazioni sanitarie e sociali, come dimostra il recente rapporto ISTAT e i rapporti presentati da altri istituti di ricerca. Con l’autonomia differenziata la critica situazione di disuguaglianze viene così cristallizzata.
La Repubblica è una e indivisibile: probabilmente questo principio costituzionale non è mai stato attuato, così come molti altri. La nostra è una storia di divisione e disuguaglianze che rischiano di crescere, in uno Stato in cui l’interesse per le persone e per la loro dignità sociale è ai minimi storici: che questi principi siano destinati a rimanere vacue parole?