Un paio di settimane fa, sono stata a Parma per la presentazione di un libro. Sentendo che vengo da Napoli, una persona con cui chiacchieravo mi ha detto: «Caspita, ma quanto si mangia lì? Ci sono stato solo una volta e per strada c’era cibo ovunque». La mia primissima reazione è stata d’indignazione silente e mal trattenuta. Stavo quasi per dire che, in realtà, io non sono davvero nata a Napoli, ma in Puglia. E, però, delle cose amate si deve prendere il brutto e il buono, quindi me la sono cavata con un «a casa della gente non si mangia così, quelle che hai visto sono solo trappole per turisti». Poi ho aggiunto che in città c’è molto da fare, a parte mangiare.
Accendo la tv e su Food Network passa un programma con protagonista Donna Assunta Pacifico, la celeberrima figlia d’ ’o Marenaro. Per chi non la conoscesse, è la titolare di un ristorante di pesce famoso sito in via Foria a Napoli, molto frequentato durante le domeniche, i giorni di festa e il Giovedì Santo. Pare che la sua zuppa di cozze sia leggendaria. Food Network decide di affidare a lei una trasmissione culinaria, con protagonista il suo ristorante e la sua famiglia. Il programma si intitola Assunta, la regina del mare. Fin qui tutto bene.
Le puntate vedono Donna Assunta ai fornelli, con la consueta divisa da marinaretta, e sinceramente le ricette presentate fanno anche venire fame: aragoste, gamberi, triglie, alici, anche dolci, insomma di tutto di più. Quello che mi infastidisce fino al parossismo è il modo in cui il programma decide di presentare lei, le figlie, i suoi collaboratori, il locale e così anche la città: che Donna Assunta sia famosa per il suo carattere frizzante lo sappiamo tutti (su Instagram ha più di duecentomila follower, la maggior parte dei quali si prende la briga di offenderla nei commenti, per il modo in cui si esprime, il modo in cui parla, per i ritocchi di chirurgia plastica, insomma, un po’ per tutto) eppure il punto non è questo. A me non interessa se si è rifatta le labbra, gli zigomi, il seno, così come le sue figlie: quello che mi interessa è il messaggio che passa e il messaggio che passa è che a Napoli tutti sono sboccati, volgari, senza una vera cognizione della lingua italiana. E che ce ne fotte, basta che magnammo e bevimmo.
È davvero necessario che, tra una frittura di pesce e un tortino al cioccolato, si debba parlare in dialetto volgare (volgare non nel senso di “volgo” ma proprio di “cafone”)? Non ci sentiamo ridicoli a essere sottotitolati in un programma a tiratura nazionale? Ora, io mi metto nei panni di un veneto (dico per dire, ma vale qualsiasi regione): accende la tv, capita su Food Network e si trova davanti Donna Assunta vestita come per uno spettacolo teatrale di quart’ordine, che non spiccica una parola di italiano e se lo fa lo fa male, in modo forzatamente macchiettistico, con una cucchiarella di legno in mano urlando uè uè. Ditemi che impressione debba farsi una persona, a torto o a ragione.
Lasciamo perdere i gingle di apertura che farebbero rivoltare nella tomba Carosone o Caruso, anzi no, non lasciamo perdere: Napoli è solo mandolini, non ci sono altri strumenti. Suonatori di mandolini del mondo, venite in città, c’è lavoro in abbondanza e, se proprio dovesse andare male, potete andare da Donna Assunta che vi offre una zuppa di cozze e la giornata è salva, anzi, come direbbero da quelle parti, ammo scansato ’nu fuosso.
Il problema non sta assolutamente nel carattere della protagonista né nel suo modo di vestire, di parlare, di esprimersi. Il problema sta nel fatto che i suoi tratti vengono esasperati perché il programma deve vendere un prodotto: la Napoli ciarlatana, ciarliera, piena fino a scoppiare di cibo, che non fa altro che ripiegarsi su se stessa e sul proprio vomito. L’impressione che si ha è proprio quella della persona che a Parma mi ha detto: «Caspita, ma quanto si mangia lì?».
Il grottesco non finisce qui: vi è un altro personaggio che ricalca questo andamento, sempre su Food Network, Peppe Di Napoli, nomen omen. Ve lo ricorderete per i suoi video discutibili su TikTok durante la pandemia in cui mostrava pesci come fossero tesori ritrovati a El Dorado e urlava a cascata! spargendo prezzemolo fino a Sperlonga. Il suo programma si chiama Cucina d’aMare (un plauso ai produttori per l’originalità) e, come per Donna Assunta, si propone di mostrare al mondo come si cucina davvero il pesce, come si sceglie, come si evita quello non fresco. Insomma, Peppe Di Napoli mette in campo le sue conoscenze da titolare di una pescheria. Ad accompagnarlo durante le puntate, sua figlia Aurora.
E non finisce qui, perché a questo programma che lo vede protagonista se ne aggiunge un altro, probabilmente pensato e scritto da un Sorrentino ubriaco o sotto sostanze stupefacenti, una brutta copia di Tony Pagoda di ritorno dall’estero: Do you like pesce?. Sì, il programma si chiama proprio così. Ora, non mi venite a dire che non sembra la locuzione di un rimbambito che vuole sfoggiare il suo inglese perfetto ma sotto sotto è rimasto attaccato alle gonnelle di mammà. In sottofondo, va la canzone del povero Carosone Tu vuo’ fà l’americano.
E dunque Peppe Di Napoli, un altro campione della squadra della città mangereccia: il copione è lo stesso di Donna Assunta, montagne di pesce, ricette gustose e una totale assenza di buon gusto. Espressioni dialettali – metto ’a mano a cufaniello – spiegazioni dei procedimenti sottotitolati, slogan urlati, insomma il solito copione che si ripete. Eppure la figlia Aurora pare un barlume di luce divina: presenta in modo composto, non si sbraccia lanciando pesci a destra e a manca come un’ossessa. Quindi, mi dico, si può fare! È possibile condurre una trasmissione che parla di cucina partenopea senza sembrare delle caricature di noi stessi.
Non mi fraintendete: io amo moltissimo la lingua partenopea. La amo e la studio e proprio per questo mi indigno, per il modo in cui viene trattata. Perché far parlare queste persone come illetterati? Perché per parlare di Napoli dobbiamo sempre esagerare (come direbbe Donna Assunta, “quando parlate male di me, esagerate!”), dobbiamo imitarci, esasperare delle caratteristiche caratteriali che già, di per sé, sono appariscenti? Non c’è niente di male a essere esuberanti, ma se l’esuberanza viene svilita facendone un appiglio che serve agli altri per prenderci in giro, allora non mi sta bene.
E non me la prendo con Donna Assunta o Peppe Di Napoli, me la prendo con chi li ha messi lì e ha detto loro come parlare: riesco quasi a sentirne le voci e il suono delle risatine mentre spiegano ai “poveretti” come gesticolare, come muoversi, come rivolgersi alla telecamera. “Basta che siate voi stessi” li sento dire. Ma certo, perché le trasmissioni televisive si fanno così, lasciando alle persone riprese carta bianca. Sarebbe grave, ma sarebbe ancora più grave se qualcuno si fosse preso la briga di scrivere loro un copione.
Vogliamo poi includere in questa lista anche il meraviglioso duo di Imma Polese e consorte, Matteo Giordano, famosissimi per essere i titolari (lei, in realtà, figlia del Boss delle cerimonie, Don Antonio Polese) del Grand Hotel La Sonrisa, il Castello delle cerimonie (che ha fatto credere a mezzo mondo che a Napoli i matrimoni si celebrassero solo con cavalli bianchi, abiti usciti dal peggior negozio di Jersey Shore e banchetti gargantueschi). Ebbene, sempre sullo splendido Food Network, conducevano In cucina con Imma e Matteo (vanno ancora in onda le repliche), programma nel quale si proponevano, sentite che originalità, di cucinare piatti tipici della tradizione napoletana. Ah! Finalmente. Non sapevamo proprio come fare altrimenti.
Amici, mi dispiace deludervi, ma anche in questo caso si sentiva la necessità di arricchire il vocabolario con espressioni dialettali forzate, messe lì perché faceva folklore e perché ci toccava imparare da un’imprenditrice a cui hanno sequestrato “il castello” come si facevano gli ziti alla genovese. Scusate, ma a chi interessa davvero? Vorrei dire a Food Network che forse non era il caso di affidare una trasmissione televisiva a una persona coinvolta, fin dal 2011, in un’indagine giudiziaria. Ma perché poi rinunciare alla tentazione di rappresentare la classica Napoli truffaldina e disonesta? Troppo goloso. E quindi abbiamo il trio delle meraviglie: Napoli ladra, Napoli chiatta e Napoli ignorante.
Qualcuno potrebbe obiettare che, in un altro articolo, io abbia difeso Geolier a Sanremo con la sua canzone in dialetto. Certo che l’ho difeso, come ho detto già in diverse occasioni che il napoletano è una lingua meravigliosa che merita di essere conosciuta. Conosciuta, non dileggiata. Non usata per svilirci, per farci sembrare dei dementi senza cultura o, peggio, con cultura ma senza cervello. Questi programmi televisivi cosa ci insegnano? Che a Napoli si mangia e si beve e fanculo alla buona creanza, che le stesse persone che hanno preso a pesci in faccia (forse i pesci della pescheria di Peppe Di Napoli) Geolier vanno a guardare Donna Assunta che prepara lo spaghetto a vongole, magari provando pure a rifarlo, e dopo però concludere andando su Facebook a scrivere “e però, pota, che beduini questi napoletani”.
Geolier stava facendo musica, stava portando avanti una tradizione lunghissima per la quale Napoli deve essere giustamente fiera, la canzone. Sono due cose ben diverse, mettere a tavola quattro pesci facendo battute sconce a caso e cantare a Sanremo. Che poi, a me, di Geolier me ne frega zero, ma il punto è questo: mi domando che bisogno c’è di attirare questo tipo di attenzioni.
Se c’è una cosa che non mi piace del carattere napoletano è proprio la provocazione fine a se stessa, “tanto siamo meglio noi!”. Quante volte l’ho sentito dire? Mi dispiace, amici, ma non è così che si dimostra di essere delle persone di valore, non è scontrando l’ignoranza con l’ignoranza che si esce vincitori. Ci si degrada solamente a uno stadio ancora più basso, più deprimente. E la cosa che mi fa davvero rabbia è che Napoli, non mi stancherò mai di dirlo, ne avrebbe di cose da dire, da far vedere, da ostentare con fierezza, a testa alta.
E invece no. Andiamo appresso ai buongiorno pescheria, ai cascata, ai uè uè. Stiamo perdendo un’occasione ora che abbiamo tutti i riflettori puntati addosso: quella di far valere le ragioni di una città che, oltre alla montagna di cibo, sa offrire anche cultura, eventi, rassegne, festival, professionisti di ogni tipo, bellezze naturali, storia. Non si possono fare entrambe le cose? Farsi un bel pranzo e, nel frattempo, scoprire un po’ di più la ricchezza della città?
Ma andiamo! Mangiamo, mangiamo, mangiamo, fino a scoppiare! Napoli commestibile, Napoli come la casetta di pan di zenzero di Hänsel e Gretel: finiremo per mangiare anche quella, tutta intera, e strozzarci con la nostra stessa ingordigia. Napoli, signori e signore, La Grande Abbuffata[1].
[1] La grande abbuffata, film diretto da Marco Ferreri, 1973.
Foto in copertina di Deborah D’Addetta ©