Sono trascorsi dieci anni da quando Arturo ha preso quel tram per l’ultima volta. La sua vita, poi, non ha preso la strada a cui sembrava destinata, e mille paure si sono impossessate della sua quotidianità, fino a sconvolgerla in maniera irreparabile. Andata e ritorno; gente che sale, gente che scende; binari e fermate che scorrono lente come le immagini della sua storia. Forte di una sceneggiatura dal carattere cinematografico, Le poche cose certe, l’ultimo romanzo di Valentina Farinaccio, conquista pubblico e critica.
La scrittrice molisana, ma romana d’adozione, si lascia ispirare anche un po’ dalla nostra terra, in particolare dall’isola di Procida, sulla scia di quel libro di Elsa Morante, L’isola di Arturo, per raccontare le vicende del suo personaggio, perché il mare, se ci vivi in mezzo, devi necessariamente far decidere a lui. Devi affidarti e fidarti.
Editorialista per Il Venerdì di Repubblica, Valentina Farinaccio sarà protagonista del prossimo evento organizzato da Mar dei Sargassi e dall’Associazione Culturale L’Anguilla sabato 23 febbraio alle ore 11:00 presso il Teatro Diana di Napoli. All’incontro con l’autrice parteciperanno il direttore della nostra testata Alessandro Campaiola, Flavia Fedele, presidente dell’associazione, e Gabriella Giglio, scrittrice. In attesa di conoscerla, ha risposto ad alcune curiosità in merito al suo Le poche cose certe e non solo.
Partiamo dal tuo ultimo romanzo, Le poche cose certe, che presenteremo qui a Napoli il prossimo 23 febbraio. Incuriosiamo i lettori. Ce lo racconti?
«Arturo è un quarantenne pieno di paure e di inspiegabili dolori. All’inizio di questa storia, sta andando a incontrare Atlantide, la curiosa e misteriosa donna che una sera, in pochi minuti, gli ha tolto il respiro. Sempre all’inizio di questa storia, però, Arturo sta anche prendendo di nuovo quel tram, dieci anni dopo. In cerca del coraggio che gli serve per prenotare la sua fermata, scendere e andare a fare quello che deve fare.»
La vicenda si svolge principalmente in due fasi, Andata e Ritorno, entrambe a bordo di un tram. Perché hai sentito la necessità di questo sguardo alternato?
«Steve Jobs diceva che i puntini si possono unire soltanto guardandosi alle spalle, guardando al passato. Ecco, per ricomporre questa storia, che parte da un appuntamento che rischia di saltare, avevo bisogno di fare continuamente avanti e indietro nel tempo. Tutto quello che ci succede, in fondo, ha una spiegazione: certe volte bisogna guardare a chi eravamo per capire chi siamo.»
Il tram quale unico set cinematografico dell’intera rappresentazione. Come mai?
«Mi affascinava molto l’idea di far accadere tutto su un mezzo lentissimo, e tutto pieno di vite degli altri. Su un mezzo che va sui binari, che non può cambiare strada, che non può scegliere mai. Volevo che Arturo facesse così, in una sorta di prigionia, il suo viaggio piccolo e importantissimo.»
Altra componente fondamentale è l’isola di Procida e, con essa, il mare che separa gli uni dagli altri, che confina l’essere umano con le proprie paure. Un tema complesso che, però, racconti con semplicità e delicatezza.
«Ho scritto buona parte di questo romanzo a Procida, l’isola in cui nasce e cresce l’Arturo meraviglioso di Elsa Morante. Il tram su cui il mio protagonista viaggia è a modo suo un’isola, che un po’ lo protegge e un po’ lo accompagna ad affrontare quello che c’è fuori. Il mare in fondo fa così, no? Certe volte è buono, e certe volte è cattivo. E se ci vivi in mezzo, devi necessariamente far decidere a lui. Devi affidarti e fidarti.»
Dalle pagine di Le poche cose certe viene fuori un ritratto di Roma come città difficile, confusionaria. La Capitale è centrale nella narrazione. Sarebbe stato possibile ambientare il romanzo altrove? E, soprattutto, è davvero così complicato vivere nell’Urbe?
«La vita di Arturo si complica nel momento in cui il tram che lo sta portando all’appuntamento che aspetta da tempo si guasta, ritardando e rovinando tutto. Roma è una città enorme, bellissima, crudele, disordinata, e un tram che si ferma può cambiare la faccia di una giornata. Non avrei potuto ambientare altrove una storia così piena di gente appesa alle maniglie, e appesa all’eterna paura di fare tardi, o di sbagliare fermata. Abito qua, a Roma, da 15 anni: e sì, è davvero molto difficile viverci.»
Ci spieghi questa storia della fobia dei topi? Sappiamo che è un tratto quasi autobiografico.
«Fra le tante paure di Arturo, c’è quella dei topi. Gli ho regalato questa mia fobia perché era perfetta per un personaggio tanto pavido. I topi possono essere ovunque e la certezza di non incontrarne non esiste. Ci si può chiudere in una stanza, quindi, e lasciare passare così gli anni, oppure si può provare a vivere, a buttarsi, a fare le cose, nonostante la paura.»
In questo libro sono molto chiari i tuoi riferimenti letterari. Su tutti, ovviamente, L’isola di Arturo (Elsa Morante). Quali sono i romanzi che ti hanno formata e in che modo hanno inciso sulla tua scrittura?
«Morante, Moravia, Pavese, Buzzati, ma anche Carver, Salinger, Jane Austen: cito gli autori (non tutti), invece dei romanzi, perché altrimenti l’elenco sarebbe davvero troppo lungo… Non so in che modo, e se, abbiano inciso sulla mia scrittura, ma so che mi hanno mostrato la vita, la bellezza, la precisione e, soprattutto, l’essenzialità. Che non vuol dire poco, ma solo quello che serve.»
È un periodo particolarmente felice per la letteratura al femminile. Secondo te come mai? Pensi stia cambiando la voce del romanzo italiano?
«Si sta forse cominciando a capire che non è letteratura al femminile, ma letteratura e basta? Le scrittrici hanno pagato a lungo il prezzo del fatto che, mentre le donne leggono di tutto, gli uomini tendono a leggere solo libri di uomini. Ecco, spero che questa tendenza stia cambiando…»
Oltre a essere una scrittrice molto apprezzata, sei anche vivace giornalista. Ti occupi spesso di donne, così come di società. Il contatto con le realtà di un territorio, con la gente, è dunque fondamentale per te.
«Racconto storie per mestiere. E le storie non vengono mai a cercarmi a casa, devo andarmele a prendere per strada, fra la gente.»
Quali sono le poche cose certe per Valentina Farinaccio?
«Che l’unico modo per andare, ovunque si voglia andare, è cominciare a camminare.»