Le nutrici di se (Iod Edizioni, Napoli, 2019) è una raccolta di storie di donne che non hanno potuto o voluto avere figli e che hanno accolto e imparato a gestire questo sentimento di mancanza diventando nutrici di se e del Sé.
Il Sé, dal punto di vista introspettivo, è considerato il nucleo della personalità, indicato con il pronome di terza persona singolare per distinguerlo dall’ego, cioè dalla sua immagine riflessa nella quale la coscienza normalmente si identifica. Pur assumendo diversi significati in ambito psicologico, educativo, sociologico, filosofico e teologico, il Sé rappresenta generalmente il principio superiore dell’individuo che secondo un’interpretazione esoterica porterebbe iscritto il destino e le linee guida della sua condotta esistenziale. Ed ecco allora intervenire nella narrazione, proprio come destino e principio superiore di ciascuna delle donne che si raccontano, varie divinità mitologiche come alter ego-Sé. In termini esoterici, il bambino è l’homunculus alchemico in attesa nell’utero-uovo. L’approccio del libro a questo delicato aspetto della maternità è molto evidentemente di carattere junghiano e non si sa se le narratrici non stiano trasferendo un sogno dall’alto.
Mito e sogno sono gemelli ed entrambi molto importanti per la vita biologica e intellettiva. Basti pensare che il fondatore del metodo critico, Cartesio, scoprì il Cogito durante un memorabile sogno. Le non-madri, quindi, insieme alle rispettive divinità-paradigma, formano una danza di korai come quelle dipinte sul vaso di Ruvo di Puglia. Ma non si tratta, nel nostro caso, di prefiche o donne che piangono un defunto, quanto di madri che coltivano frequentazioni con il fantasma del non-nato, il che genera un sentimento affine a quello religioso di non-ancora-già.
Come accade nel mito, le nutrici elaborano strategie di nascita, intesa come modifica di senso della loro condizione desiderante, di trasformazione. Certo, anche la paternità non realizzata ha caratteri affini alla maternità, ma in questo secondo caso i fattori sono più numerosi, complessi e intrecciati. La percezione più antica del femminile è materies, la corteccia, protettiva, dell’albero.
Le analogie tra divinità e grandi autrici possono essere molte e sembra quasi che, oltre a Era, Estia, Artemide, durante il resoconto del setting, tra le quinte, dietro le quinte, queste autrici fungano da suggeritore. Virginia Woolf, per esempio, o la Cvetaeva. Marina Cvetaeva, madre di una bambina morta per denutrizione, ci fa porre la domanda che giriamo alle autrici del libro: la donna che ha generato e perso un figlio è anch’essa una nutrice? Una donna così povera da non avere soldi sufficienti per comprare il latte al figlio, che scopre di essere sposa di un marito che partecipò all’assassinio del figlio di Troskji, è nutrice di sé quando, stanca, determina la propria disperatissima morte? E come rileggere, con l’approccio proposto dal libro, la Woolf di Gita al faro?
La Cvetaeva, in una lettera all’amazzone Natalie Clifford Barney, fa riferimento a un buco nero presente in tutta la teoria delle Amazzoni, comunque molto più solida dell’odierna teoria del genere pur se scritta già cento anni fa, e naturalmente molto meglio.
Come può avvenire la rinascita se non mediante la generazione o la rigenerazione? Un figlio è precisamente questo, per cui amanti che non hanno tempo per l’avvenire che il bambino rappresenta, non hanno figli perché non hanno futuro, hanno soltanto il presente, che è il loro amore, e la morte sempre immanente. Amanti che sono loro stessi bambini e, ricorda Cvetaeva con una sintesi ironica di cui la psicoanalisi non sarà mai capace, i bambini non hanno bambini, cioè i bambini, anche gli adulti che nascondono o non vedono o non vogliono il puer, sono bambini ma non fanno bambini. Impossibile trovare nulla di così fulmineamente autentico e profondo in tutta la letteratura sulle identità di genere.
Certo, i poteri economici del mondo moderno hanno poi intuito che il bambino, che possiamo chiamare con altra terminologia l’homunculus nell’utero-storta alchemica, era l’oggetto del desiderio nascosto di tutte le infelicità correnti, le scorciatoie onnipotenti, le sperimentazioni sessuali e i rispettivi vuoti, e hanno naturalmente trovato le soluzioni: la generazione artificiale, il commercio di sperma, ovuli, uteri, e bambini.
Durante la lettura, a mano a mano, le narratrici convergono a formare un unico affresco con al centro, e sotto un tendaggio come quello della Madonna del Parto di Piero della Francesca, la donna che regge sulle ginocchia vuote il peso del proprio desiderio. Stiamo insistendo troppo sul tema del bambino, segnale che egli vuole venire allo scoperto, essere partorito e battezzato, chiamato con un nome e come testimone delle testimoni. Chi è questo bambino, come è stato raffigurato dal mito? Il bambino è Eros.
Il libro, curato da Cinzia Caputo e scritto in tandem da Marina Boniello e Antonella Palmisano, è di lettura scorrevole, garbata. Per sintonia con il metodo delle tre autrici, quindi, non possiamo non evocare anche noi al termine del volume un altro mito: la triplice Ecate.