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“La terra dell’abbastanza” e l’inferno dell’invisibilità sociale

Vincenzo Villarosa di Vincenzo Villarosa
9 Novembre 2021
in Cinema
Tempo di lettura: 2 minuti
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Una notevole opera prima, La terra dell’abbastanza dei fratelli D’Innocenzo, ha partecipato alla sezione Panorama del Festival del Cinema di Berlino 2018 ed è riuscita a passare nelle nostre sale bene accolta dalla critica e da un pubblico che sa apprezzare un cinema che racconta di periferie urbane e criminalità, senza spettacolarizzare i protagonisti e le storie della “invisibilità” sociale.

La trama è semplice e sembra tratta dalle cronache raccontate a margine dei fatti importanti sulle pagine locali dei quotidiani. Mirko e Manolo, due amici fraterni che vivono nell’anonima e degradata periferia di Roma, investono un uomo, con la loro auto e di notte, e per paura scelgono la strada della fuga e del silenzio. Il padre di Manolo riesce a sapere, per caso, che l’investito era un criminale da tempo cercato dalla mafia locale e irresponsabilmente induce il figlio, seguito poi dall’amico, ad approfittare di quella che gli sembra essere un’occasione per uscire dalla miseria ed essere ammessi nella “famiglia” del potere criminale del posto. Per i due ragazzi e per i loro cari sarà l’inizio di una folle corsa verso l’annichilimento totale e senza speranza.

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Damiano e Fabio D’Innocenzo, registi trentenni che conoscono bene e in prima persona i luoghi e le storie di vita della periferia romana, hanno scritto la sceneggiatura e diretto con mano rigorosa la vicenda dei due sfortunati protagonisti, riferendosi in maniera esplicita a quell’inferno di cui racconta Italo Calvino nel suo libro Le città invisibili. In una delle pagine finali del romanzo, il grande scrittore ci parla dell’inferno dei viventi e dei due modi per affrontarlo: accettarlo fino a farne parte oppure cercare ciò che al suo interno non è inferno, prendendosene cura e mettendolo al centro della propria vita.

Mirko, interpretato da Matteo Olivetti, e Manolo, interpretato invece da Andrea Carpenzano, conoscono soltanto la prima alternativa e la vivono fino in fondo alle loro giovani esistenze, in un ambiente familiare e sociale dove l’indigenza è vista come debolezza, e dove la forza, in cambio, è sentita come la sola possibilità di non vivere “da sfigati”, per farsi valere in quel microcosmo della marginalità sociale specchio fin troppo fedele del più ampio mondo vitale, dominato dal possesso dei beni materiali e dalla prevaricazione delle gerarchie del potere economico e sociale.

La storia dei due giovani e dei loro sogni mai realizzati sono rappresentate sullo schermo senza far ricorso alle “leggi” dello spettacolo che dominano tanti film incentrati sulle vicende della criminalità. La scelta dei fratelli D’Innocenzo segue più la strada del grande Matteo Garrone – soprattutto quella dei suoi film L’imbalsamatore e del più recente Dogman, ancora presente nei cinema italiani – dove le “gesta” dei protagonisti, nati e vissuti nell’invisibilità sociale, sono dominate dall’irrimediabile fallimento dei loro infantili sogni di felicità, che non riescono a immaginare se non nella rappresentazione più elementare e rozza costituita dal possesso del denaro e dall’esercizio del potere, da sempre presente nel loro orizzonte esistenziale e ambientale.

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