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La fotografia irrequieta e indipendente di Margaret Bourke-White

Francesca Testa di Francesca Testa
13 Agosto 2024
in Camera Chiara
Tempo di lettura: 4 minuti
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Margaret Bourke-White, nata a New York il 14 giugno del 1904, studia scienze e arte in diverse università degli Stati Uniti ma, grazie a un corso di fotografia tenuto da Clarence H. White – una delle figure più importanti del fotosecessionismo – alla Clarence H. White School of Photography, la sua vita cambierà per sempre. Per l’occasione riceve, infatti, la sua prima macchina fotografica, una ICA Reflex da 3 ¼ x 4 ¼ pollici di seconda mano con una lente rotta e con la quale scatta le sue prime fotografie su lastre di vetro. Anche se continua a studiare zoologia all’Università del Michigan, da questo momento non lascerà mai più la camera oscura.

Apre il suo primo studio fotografico nel suo appartamento a Cleveland, Ohio, e qui inizia una carriera di successo come fotografa industriale, realizzando immagini notevoli di fabbriche e grattacieli alla fine degli anni Venti. Le sue fotografie sono forti e dal grande potere comunicativo. Sempre alla ricerca di nuove tecniche, Margaret Bourke-White non si ferma davanti a nulla, sale sui grattacieli più alti, sorvola la città, non si lascia inibire nemmeno dalle alte temperature delle fusioni. Diventa, così, una delle fotografe più apprezzate nell’ambito della ricerca artistica, nonché la prima fotografa industriale.

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I suoi lavori portano nuove commissioni e, allo stesso tempo catturano l’attenzione di Henry Luce, fondatore delle riviste Time e Fortune, che, nel 1929, la invita a diventare la prima fotografa dello staff di Fortune. Le parole che Henry Luce utilizza per raccontare e presentare le sue riviste sembrano abbracciare tutto quello che è e sarà della fotografia di Margaret Bourke-White: il viso dei poveri e i gesti dei superbi; […] macchine, eserciti, moltitudini, ombre nella giungla; (…) cose lontane migliaia di chilometri; nascoste dietro muri e all’interno delle stanze.

L’anno successivo è la prima, tra i fotografi occidentali, ad andare in URSS e realizzare un reportage sull’industria sovietica. Torna a New York e, nel 1930, fonda uno studio fotografico nel Chrysler Building. Nel 1935 entra a far parte di Life ed è sua la prima copertina del nuovo rotocalco: grazie al New Deal, fissa su carta i lavori finiti della diga di Fort Peck. In questa foto traspare tutta la potenza comunicativa che la Bourke-White è in grado di trasmettere attraverso il suo sguardo e le architetture. Nelle sue immagini vengono sovrapposti i piani, creando quasi geometrie astratte che diventano bidimensionali. La sua ricerca la porta a intrecciare le scie di altri fotografi quali Moholy Nagy e Edward Steichen verso il dinamismo astratto: ci sono immagini senza alti né bassi, senza punti focali, che spingono l’occhio a vagare sulla superficie; la foto diventa una successione di oggetti senza fine e un’inquadratura arbitraria di un mondo che chiaramente si estende ben oltre di essa.

La fotografia spinge la giovane americana sempre più verso l’emergenza e la denuncia sociale: sua ad esempio è la celebre fotografia della fila di persone di colore, in attesa della distribuzione di un pasto, sovrastati dalla pubblicità di una automobile con a bordo la tipica famiglia americana wasp e la frase “World’s highest standard of living”.

Negli anni successivi, sempre per Life è inviata in Germania, Austria, Cecoslovacchia e poi ancora a Mosca. Diventerà la portavoce degli accadimenti più significativi del suo tempo, mostrando, ad esempio, che in Unione Sovietica non esiste l’ateismo: in alcuni suoi scatti sono riprese una chiesa ortodossa e una protestante al centro di Mosca. E sempre nella capitale, dove si trova per svolgere un reportage sul piano quinquennale di Stalin, ritrae l’attacco aereo dei tedeschi, riuscendo a salire di notte sul tetto dell’ambasciata americana. Seppur non abbia tempo a sufficienza per prepararsi, Margaret Bourke-White riesce a creare delle immagini perfette: la luminosità dei proiettili permette di far vedere i profili delle case, delle guglie sull’acqua del fiume.

Tornata negli Stati Uniti, porta avanti il desiderio di diventare reporter di guerra. Mai nessuna donna è stata accreditata dall’esercito americano, ma lei ci riesce e si ritrova spesso in prima linea. Le sue immagini ritraggono e raccontano della Seconda guerra mondiale, anche qui unica e prima donna a seguire le forze di aviazione statunitensi. Passerà dall’Unione Sovietica alla Germania, dal Nord Africa all’Italia, gli scenari saranno spesso simili: i campi di battaglia, ma anche i momenti di calma e riposo, gli ospedali da campo, i bombardamenti, le vedute aeree sulle città distrutte, ma anche i napoletani sfollati costretti a vivere in una grotta, la fame per le strade. E quando nel 1945 giunge finalmente la liberazione del campo di concentramento di Buchenwald, Margaret Bourke-White è lì, mostrando e documentando un orrore che non dovrebbe mai essere dimenticato e mai essere ripetuto. Ma affinché si possa prendere coscienza di ciò che l’essere umano è in grado di fare, a volte la sola fotografia non può bastare.

Nel 1947 la fotografa americana si trova invece in India, dove ha la possibilità di intervistare e fotografare Ghandi poche ore prima che venga ucciso. E, ancora, nel 1950 si trova in Sud Africa dove racconterà l’Apartheid, ritrae i lavoratori nelle miniere d’oro, poi è in Corea per la firma dell’armistizio e a documentare la guerriglia e la popolazione civile.

Purtroppo, a causa del morbo di Parkinson, nel 1957 firma il suo ultimo servizio per Life spegnendosi all’età di 67 anni nel 1971. Una donna e una fotografa impossibile da dimenticare, capace di creare un rapporto tra i soggetti inquadrati con consapevolezza e criterio di proporzione rigoroso, stabilendo fin da un subito una forza narrativa delle immagini davvero incredibile.

©Margaret Bourke-White / The LIFE Picture Collection via Getty

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