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La death fast nelle carceri turche e gli ideali che sopravvivono alla morte

Giusy Santella di Giusy Santella
2 Giugno 2020
in Attualità
Tempo di lettura: 4 minuti
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Death fast: letteralmente, morte veloce. È l’espressione che abbiamo sentito utilizzare di recente con riferimento allo sciopero della fame di alcuni attivisti detenuti nelle carceri turche in segno di protesta per i processi ingiusti e gli arresti arbitrari cui sono stati sottoposti. È la morte veloce che molti di loro preferiscono a quella lunga e interiore che seguirebbe a una prigionia ingiusta e priva di fondamento. È quella cui vanno incontro Ebru Timtik e Aytac Unsal, che non toccano cibo da più di cento giorni e continueranno se il silenzio istituzionale e dei grandi media non si interromperà. Si tratta dei legali di Helin Bolek e Mustafa Koçak, anche essi morti nelle carceri turche rispettivamente dopo 288 e 297 giorni di digiuno. Il capo di imputazione per tutti loro è lo stesso: appartenenza ad associazioni terroristiche e in particolare al DHKP-C, partito considerato illegale in Turchia.

È un reato che dopo il fallimento del colpo di Stato del 15 giugno 2016 viene utilizzato moltissimo per reprimere qualsiasi forma di opposizione: le norme antiterroristiche esistevano già da tempo ma a partire da quel momento sono diventate lo strumento di un’accanita caccia alle streghe nei confronti di tutti gli eventuali simpatizzanti dei golpisti. Le persone maggiormente colpite sono giornalisti, avvocati e artisti che sposano ideali non allineati con l’idea di Turchia del Presidente Recep Tayyip Erdoğan. È quanto successo a tantissimi membri del Grup Yorum, una band fondata nel 1985 e diventata presto il simbolo della sinistra turca, sposando lotte per la giustizia e la libertà non solo nel proprio Paese ma in tutto il mondo. Tra questi c’era anche Helin, morta appena un mese fa, così come Ibrahim Gokçek, spentosi dopo 323 giorni di digiuno il 7 maggio scorso, in seguito alla notizia della revoca del divieto di esibirsi imposto dalla magistratura.

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In realtà, nonostante l’entusiasmo per questo flebile segnale di apertura, non è stata fissata alcuna data per un eventuale concerto e sono molte le richieste del gruppo ancora inevase, tra cui la scarcerazione di tutti i componenti della band, l’annullamento del mandato di cattura nei confronti degli altri musicisti e l’interruzione delle operazioni di polizia ai danni di Idil, il loro centro culturale colpito da molteplici attacchi – anche violenti – nel corso di questi anni. Addirittura, al funerale di Ibrahim non sono mancati scontri con le forze dell’ordine, che hanno sequestrato il corpo e lanciato lacrimogeni contro la folla, adducendo come giustificazione il rispetto delle misure anti-COVID. In quell’occasione, sono state arrestate anche le tre legali di Ibrahim e altri due membri del Grup Yorum, fatti che non promettono nulla di buono.

A dimostrazione dell’accanimento repressivo messo in atto, prigionieri politici, giornalisti, attivisti e avvocati sono stati esclusi dalle misure varate per il contenimento del coronavirus: circa 100mila detenuti hanno infatti potuto godere della liberazione condizionale purché non appartenenti a nessuna di queste categorie, oramai individuate quali nemiche dell’ordine pubblico. Come denunciato da Murat Cinar, giornalista turco trapiantato a Torino, le carceri del Paese sono piene di persone detenute in maniera arbitraria utilizzando le norme antiterrorismo. Basti pensare che persino un membro di Amnesty International Turchia, Taner Kiliç, è stato arrestato: tra le sue colpe l’aver scaricato un’app che i golpisti utilizzavano per scambiarsi messaggi. Per tutti loro si svolgono processi sommari, con falsi testimoni e prove costruite ad hoc per decretarne la colpevolezza.

Nel processo dei legali Ebru e Aytac, condannati complessivamente a 159 anni di carcere e attualmente detenuti nelle prigioni di Silviri – il più grande carcere d’Europa – e Balikesir, ha avuto molto peso il Ministro dell’Interno Soleyman Soylu, che li ha definiti pilastri dell’organizzazione terroristica DHKP-C. A nulla sono valse le proteste dell’opposizione che considera l’udienza una farsa: i due resteranno in carcere, oltretutto in isolamento. Una sorte che non tocca soltanto a loro: secondo un rapporto dell’ONG The Arrested Lawyer Iniziative, risulta che solo a febbraio 2020 oltre 1500 avvocati sono stati messi sotto indagine e 605 arrestati.

Il più grande carcere al mondo di giornalisti professionisti: così è stata definita la Turchia da Reporter Senza Frontiere, riferendosi all’accanimento perpetrato nei confronti dei redattori e di tutti i mezzi di comunicazione non allineati al regime. Chiusi 70 quotidiani, 20 riviste, 34 stazioni radio e 33 canali televisivi, 88 giornalisti condannati in via definitiva, 73 in attesa di giudizio e 167 in esilio. Numeri da brividi che, tuttavia, non riescono a scuotere le istituzioni europee, troppo impegnate a salvaguardare i propri interessi economici con la Turchia, a cui vendiamo le nostre armi contribuendo al rafforzamento di un regime autoritario. Non una parola sugli avvocati in sciopero della fame per i quali solo associazioni di categoria e realtà impegnate nel settore hanno fatto sentire la propria voce. Non una protesta né un grido d’allarme per tutti coloro che scelgono la strada della death fast per far valere i propri diritti, fino a morire una volta trasformatisi in un’ombra di 20 chili di se stessi.

Aytac ed Ebru appartengono entrambi all’associazione turca degli avvocati progressisti, un gruppo di legali che sposa le cause delle fasce più deboli della popolazione, e hanno fatto sapere che porteranno avanti il loro sciopero fino alla morte, senza assumere neppure integratori. Fino a quando ne avranno le forze, dicono, si batteranno per processi equi e per difendere la libertà d’espressione. Non ho mai lasciato indietro le persone più vulnerabili. Ho vissuto i momenti più felici della mia vita mentre difendevo i più deboli nei tribunali. Grazie al mio lavoro di avvocato ho conosciuto il valore della vita e delle singole persone: ha scritto Aytac in una lettera nella quale ripercorre la sua vita e le ragioni che l’hanno portato a incamminarsi verso la morte.

Io non rinuncerò mai alla mia gente, all’Anatolia, che mi ha insegnato la vita, che mi ha reso umano con il suo sforzo. Morirò ma non mi arrenderò. Questa è la storia del mio viaggio. Morirò come Mustafa Koçak e Ibrahim Gokçek. Morirò ma non smetterò mai di difenderli: la conclusione è chiara, esistono ideali che sono più forti dell’attaccamento alla vita capaci di rimanere oltre i corpi e la loro morte. Ci sono principi per cui vale la pena lottare e morire, perché nessuno subisca gli stessi abusi. È impossibile che queste grida rimangano inascoltate, è impossibile rimanere in silenzio.

Prec.

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