Questi tre punti: 1) che la crisi è un processo complicato; 2) che si inizia almeno con la guerra, se pure questa non ne è la prima manifestazione; 3) che la crisi ha origini interne, nei modi di produzione e quindi di scambio, e non in fatti politici e giuridici, paiono i primi tre punti da chiarire con esattezza.
Cercare di non riportare una crisi a definizioni o a cause uniche. La crisi, agli occhi di Gramsci, è un processo, che ha tante manifestazioni, dove causa ed effetto si accavallano e confondono.
Tentare di semplificare significa falsificare. In una crisi non abbiamo una data di inizio, bensì manifestazioni che la rendono lampante ma che, in un certo senso, sono in essere prima che la crisi stessa avvenga. Quanto, ad esempio, il crollo di Wall Street del 1929 ha spianato la strada alla Seconda Guerra mondiale? Quanto il mercato, come vita economica, ha bisogno di cosmopolitismo e quanto, invece, la vita politica ha bisogno del nazionalismo? Quanto, al di là della politica di Putin, l’ossessione per la Russia, da Napoleone in poi, ha dominato la politica europea e, in seguito, atlantica negli ultimi secoli?
Tutto il dopoguerra è crisi, con tentativi di ovviarla, che volta a volta hanno fortuna in questo o quel paese, niente altro.
Leggiamo spesso che la Borsa brucia milioni di euro in poche ore: ma sarà vero? Oppure questi milioni di euro, apparentemente bruciati, si limitano a cambiare portafoglio? Per alcuni studiosi, e forse non a torto, anche la guerra è una manifestazione di crisi economiche già in essere, anzi è una delle risposte economico-produttive alla crisi stessa. Ciò dimostra la indivisibilità nei fatti di separare la crisi economica da quella politica, sebbene ciò sia possibile scientificamente, cioè con un lavoro di astrazione.
Insomma lo sviluppo del capitalismo è stata una continua crisi, se così si può dire, cioè un rapidissimo movimento di elementi che si equilibravano ed immunizzavano. Ad un certo punto, in questo movimento, alcuni elementi hanno avuto il sopravvento, altri sono spariti o sono divenuti inetti nel quadro generale.
Praticamente diamo il nome crisi a semplici movimenti di fisiologico squilibrio della società capitalistica, immaginando, nella nostra buona fede, che meccanismi di cannibalismo economico possano trovare un’armonia tra loro.
Esempio classico è quello di inserire una gallina addormentata in una gabbia di leoni affamati e pretendere che ci sia nelle forze in campo la capacità di sviluppare armonia. Una delle forze soccombe, questo mi sembra chiaro, ma il meccanismo della spartizione della gallina tra i leoni affamati crea, di volta in volta, scenari di guerra commerciale ed economica che, spesso, sfocia in una guerra militare. Idem per la produzione ossessiva di armi che, proprio in base alla più elementare regola di mercato, una volta in sovraproduzione vanno utilizzate, altrimenti la stessa industria perderebbe ogni ragion d’essere. È nella produzione l’origine di squilibrio ed è nei meandri complessi dello squilibrio che si manifestano le crisi.
Onde illusioni varie dipendenti dal fatto che non si comprende che il mondo è un’unità, si voglia o non si voglia, e che tutti i paesi, rimanendo in certe condizioni di struttura, passeranno per certe crisi.
Ci lamentiamo spesso che il lavoro scompare, ma non intravediamo nei meccanismi di delocalizzazione industriale la causa intrinseca di questo. È chiaro che il singolo imprenditore di scarpe, producendole a un terzo del prezzo, può sperare di fare più profitto. Ma allo stesso imprenditore sfugge che, se tutti producono altrove tutto, i posti di lavoro scompaiono e, consequenzialmente, il potere di acquisto per comprare le sue scarpe. Risultato: si produce a un terzo del costo, ma si fallisce ugualmente. A meno che non si individuino altri mercati.
Ecco che la crisi diventa il tentativo di conquistare altri potenziali acquirenti, diciamo esportazione di democrazia e oggettistica, ma questo comporta una guerra militare. Quindi: ulteriore impoverimento di nazioni apparentemente progredite e ulteriore impoverimento di nazioni povere. Così la crisi si aggroviglia su se stessa, generando altre crisi latenti, in un’ottusa e cinica autodistruzione. Praticamente si supera una crisi, ponendo in essere le condizioni di una altra crisi.
La globalizzazione ha certamente velocizzato questi meccanismi che già Gramsci aveva individuato. Il rischio però è che questa velocizzazione diventi così esponenziale da non presupporre intervalli tra una crisi e un’altra. La definizione più bella di follia è: fare sempre le stesse cose, aspettandosi risultati diversi.
Contributo a cura di Luca Musella