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“La Cecilia”: dare nome al corpo, dare forma all’io

Mariaconsiglia Flavia Fedele di Mariaconsiglia Flavia Fedele
18 Giugno 2025
in Billy
Tempo di lettura: 5 minuti
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È da poco cominciata l’estate quando Cecilia scopre di avere il nome di un verme. L’aria è già calda, intrisa di sudore e mare, e qualcosa dentro inizia a mutare forma. Non è il primo cambiamento – il corpo lo sente, gioca d’anticipo, come succede agli animali quando fiutano l’estro. Ma quel nome, detto da suo fratello in un pomeriggio qualsiasi, si incolla alla pelle come una verità troppo viva: cecilia, minuscolo, viscido, cieco. Un anfibio. Maschio e femmina insieme. Proprio come lei, che si sente divisa, strappata a metà tra chi è e chi dovrebbe essere.

Cecilia: il nome scelto dal padre, tre sillabe piene a evocare ordine, purezza, appartenenza. Cecì: il nome scagliato dalla madre, due sillabe monche, a simboleggiare un rapporto che fatica a compiersi, persino a pronunciarsi. Suoni diversi, sentimenti incapaci, sguardi sfuggenti: è da questi e da un nome che non è che si innesca il conflitto identitario, il dubbio esistenziale, lo scivolamento dentro e fuori i confini che il mondo, sempre, ci impone.

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L’isola di Ischia, in tal senso, diventa un teatro perfetto: uno spazio chiuso e insieme aperto, fisico ma anche mentale, che costringe la protagonista a confrontarsi con ciò che vorrebbe evitare. La spiaggia è il luogo della sperimentazione, del desiderio, della possibilità. La casa, invece, è la prigione dei ruoli, della vergogna, dei segreti. L’intero romanzo è attraversato da un senso di attesa e di sospensione, come se ogni gesto potesse aprire a una rivelazione o a una perdita irreparabile.

A Ischia, stavolta, la famiglia non è più la stessa. Il padre va e viene, portandosi dietro il mistero di un’altra vita; la madre è presente, ma solo nella sua fisicità. Le parole non passano, non scivolano tra loro. Cecilia si muove in una casa che non le somiglia più: il letto è stato spostato, il bagno separato, le stanze sono diventate frontiere. Ogni oggetto urla che non è più bambina. Ma non è nemmeno adulta. È qualcosa in mezzo. Qualcosa di difficile da dire. Un anfibio.

Cecilia ha tredici anni. E tredici anni sono un’età in cui tutto cambia, ma nessuno ti spiega come. Così lei cerca da sola. Ai Maronti, lontano da Sant’Angelo, dove ancora è passato, trova un ipotetico futuro: i ragazzi, le birre condivise, i giochi in acqua, le prime attrazioni. Un gruppo in cui entra per caso – o per errore. Capelli corti, seno piatto, la scambiano per un maschio. E lei non li corregge. Indossa il costume del fratello e le quattro lettere che ne compongono il nome: Luca. Forse perché è più semplice. Forse perché è una tregua. Ai Maronti Cecilia può respirare. Essere qualcun altro. O soltanto essere.

Alba, invece, arriva come pioggia d’estate: improvvisa, sfacciata, bellissima. Parla troppo, tocca troppo, guarda troppo. Cecilia la osserva da lontano come si studia qualcosa che fa paura e smania insieme. La desidera, ma non sa dirlo. Allora resta dentro la finzione, perché lì, in quel travestimento fragile, tutto è permesso. Anche questa strana curiosità, quella che precede l’attrazione: non è sesso e non è amore, il primo richiamo dei sensi.

È, ancora, il corpo: che cambia, che tradisce, che si fa simbolo. Cecilia lo esamina con sospetto e stupore, lo lava con frenesia, poi lentamente; è un terreno ostile, insidioso, riluttante nel lasciarsi decifrare. Così, tra desiderio e repulsione, tra fervore e alienazione, la ragazzina interroga i libri, quelli che studia suo fratello, quelli sui comportamenti animali. Loro, almeno, hanno qualcosa da insegnare.

Non ci sono adulti in questa storia: né rifugio né modello, incapaci di comunicare e abilissimi a farlo male. I grandi, qui, non sono stelle di San Lorenzo: cadono, ma senza desiderio. Cadono, ma fanno rumore. Il tradimento del padre, il mutismo della madre, il sesso riparatore: tutto concorre a rendere più urgente e solitaria la ricerca di sé. Nei genitori – figura normativa e distante l’una, presenza intermittente e idealizzata l’altra – Cecilia non trova voce. Non ne ha. L’unica possibilità di crescita sembra allora quella del mimetismo, dell’ambiguità. Così come l’anfibio può vivere in acqua e sulla terra, lei si muove tra i mondi del maschile e del femminile, rifiutando di scegliere, almeno per un po’.

Ma l’equivoco ha il fiato corto. Perché il corpo – quel corpo che detesta – comincia a parlare. Il ciclo arriva come un segno che non si può cancellare. Cecilia prova ribrezzo, così come la disturba la femminilità della madre, con i suoi seni pronunciati e l’ombelico sempre celato. Eppure, è lì che si specchia. In quel corpo odiato riconosce qualcosa di sé. E forse anche qualcosa di lei che può essere diverso da quello che ha temuto.

La cecilia, l’animale, non ha occhi. Vive nel buio. Eppure sente. Si muove tra la terra e l’acqua, attraversa ambienti diversi senza scegliere. Cecilia fa lo stesso. A casa è figlia, sorella, femmina. Ai Maronti è Luca, è altro, è tutto e niente. Vive una doppia vita che non è menzogna, ma esplorazione, un’identità liquida, sfuggente, in continua negoziazione. Una domanda aperta.

Michela Panichi scrive un romanzo che non si legge, si ascolta. Come un corpo che cambia nel silenzio. Come una pelle che prende forma attraverso gli sguardi degli altri. La sua lingua è tattile, densa di odori, di sapori salmastri, di sabbia appiccicata sulla pelle. Lo shampoo di Alba. Il sudore dei ragazzi. I piedi nudi sull’asfalto bollente. Come il pensiero adolescenziale, il suo stile è fatto di accumuli e interruzioni, si muove tra introspezione e dettaglio, tra sogno e scienza. Ogni capitolo si apre con una nota dal mondo animale: corteggiamenti, conflitti, metamorfosi. Un parallelo efficace e mai forzato che amplifica il senso di straniamento e universalità della vicenda. Come i paguri che, quando crescono, cercano una nuova conchiglia per continuare a proteggersi. Cecilia è un paguro. Cambia casa, cambia corpo, cambia nome. Ma dentro resta la stessa fame: capire chi è.

Non è, questo, un romanzo di formazione propriamente detto. La Cecilia (nottetempo) ne rifiuta i codici tradizionali per abitare i territori ambigui del corpo, dell’identità, del desiderio. È una storia di carne. Di trasformazione. Di vergogna e desiderio. È una storia sull’estate, quella vera: sudata, lenta, bruciata dal sole. Quella in cui tutto accade e poi scompare. E nulla torna più uguale. Ed è, questo, un romanzo che non cerca risposte, ma si nutre di domande, soprattutto che rifugge le etichette perché sa che il chi siamo – ancor di più nell’adolescenza – è un processo, non un punto d’arrivo.

Panichi ci regala una voce che non ha paura di attraversare le zone grigie, quelle dove l’identità è mobile e inquieta. Non ci offre certezze, ma interrogativi. Non chiude i cerchi, ma li lascia aperti, come ferite che devono respirare per guarire.

Cecilia non ha risposte. Ma ha un nome. Due nomi, forse. E ha il coraggio, finalmente, di stare in bilico. Perché a volte crescere non è diventare qualcosa. È accettare di non sapere ancora cosa si è. Per questo  La Cecilia è una storia intima e collettiva, in cui ognuno può trovare una parte di sé e del proprio mutamento. Perché tutti, almeno una volta, abbiamo cercato una forma più comoda per abitare il nostro corpo. E tutti, come Cecilia, abbiamo dovuto imparare a chiamarlo per nome.

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