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“Klara e il sole”: Ishiguro indaga l’umano attraverso lo sguardo meccanico

Marina Finaldi di Marina Finaldi
21 Maggio 2021
in Billy
Tempo di lettura: 6 minuti
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Spesso ci si rifiuta d’incollare l’etichetta della narrativa di genere ai romanzi di scrittori apprezzati e acclamati sulla scena internazionale contemporanea. Il timore è quello di svilirne, forse, la potenza, d’indebolirne il prestigio. Del nuovo romanzo del Premio Nobel per la Letteratura Kazuo Ishiguro, Klara e il sole, si fatica a parlare come fantascienza eppure a essa inequivocabilmente appartiene. Certo non alla fantascienza cosiddetta hard, quella in cui gli eventi e il dipanarsi delle storie sono corredati da nozioni (para)scientifiche, da dettagliate descrizioni di tecnologie futuristiche e dai viaggi interplanetari. Klara e il sole non si dilunga mai in dettagli di tal fatta. Il contesto narrativo viene suggerito al lettore, che deve costantemente inferirlo dai pochi, essenziali, elementi forniti dalla narratrice/protagonista.

Quest’ultima è una AA, un’amica artificiale: linea di androidi a metà strada tra tecnologia sofisticata e giocattolo, commercializzati come caregiver e compagni fedeli per ragazzini. Klara l’AA scruta la strada di una città trafficata e affollata dalla vetrina di un negozio. Intorno a lei sono esposti altri androidi, come pure tazzine da caffè, braccialetti, elettrodomestici. L’idea complessiva è quella di una sorta di grande magazzino, uno di quei negozi specializzati in casalinghi di vario genere e prezzo. È facile tracciare un’associazione istintiva tra gli AA di Ishiguro e i giocattoli senzienti di Toy Story (anzi, forse al lettore italiano con qualche decennio in più sulle spalle, potrebbe balzare alla mente perfino l’immagine di Emiglio il robot, ambitissimo robot-giocattolo degli anni ‘80 e ‘90):  Klara trae il proprio nutrimento dalla luce solare, ma potremmo ben argomentare che con i pupazzi del celebre capolavoro Disney ha in comune il persistere in vita grazie al profondo legame affettivo con il “suo” bambino.

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Se, però, in Toy Story l’elemento magico, dissonante, è una sorta d’animismo fantastico, gli AA scaturiti dalla penna di Ishiguro sono frutto di un altro prodigio: quello tecnologico di una plausibile evoluzione umanoide delle attuali intelligenze artificiali come Alexa o Siri o Google Home. Il fatto stesso che gli AA ci appaiano come prosecuzioni più avanzate dei nostri assistenti domotici permette a Ishiguro di plasmare il suo universo narrativo a partire dalle nozioni taciute, e ce ne sono parecchie.

Mentre è chiaro, ad esempio, che ci troviamo nel bel mezzo di una società consumistica accelerata in cui le distinzioni di classe si mostrano ancor più nette che nella nostra, l’autore evita accuratamente ogni approfondimento sulla struttura politico-economica del sistema di sua costruzione. Neppure il tempo cronologico e storico degli avvenimenti è ben definito. Potremmo inferire che si tratti di un futuro non troppo distante dal nostro presente, oppure, come preferisco pensare, potremmo immaginare che questo non sia il futuro, ma un’alternativa al nostro presente. Avvalorano questa tesi i riferimenti a oggetti simili a quelli di cui facciamo quotidiano utilizzo che, però, nel mondo di Ishiguro assumono nomenclature e funzioni più estese.

È il caso, ad esempio, degli oblunghi, dispositivi elettronici che il lettore assocerà spontaneamente agli smartphone perché vengono utilizzati dai personaggi per interagire fra loro e anche per estraniarsi da ciò che li circonda. Funzione estesa degli oblunghi è quella di garantire la formazione e l’istruzione a distanza dei ragazzi potenziati, i membri promettenti e facoltosi della società. Ciascuno ha un precettore, un insegnante che entra nella vita dello studente solo attraverso lo schermo. L’istruzione individuale impedisce il costituirsi dei gruppi di pari e, di conseguenza, inibisce la formazione di un io sociale, di un’individualità frutto di contaminazioni – e, aggiungo, contribuisce allo sviluppo di una forma mentis monadica che concepisce il successo individuale come punto d’arrivo massimo della vita, da raggiungere a ogni costo.

I giovani si incontrano in maniera obbligatoria e programmata agli incontri di socializzazione: un evento che ricorda, per certi versi, il debutto in società e, per certe dinamiche, quelle feste di compleanno odiose di bambini semi-sconosciuti alle quali i genitori ti obbligano ad andare per “fare amicizia”. La presenza, nel romanzo di Ishiguro, di elementi di così chiara ispirazione alla più classica delle vite borghesi e la vicinanza di questa visione con ciò che noi stessi abbiamo vissuto sulla nostra pelle nel corso della pandemia, con annesso il divide tecnologico sempre più evidente tra famiglie benestanti e povere che ha reso l’accesso all’istruzione pubblica un privilegio, è un altro motivo che mi spinge a dare per buona l’opzione di un presente alternativo, più che di un futuro immaginato. Un presente che prende le mosse dall’ingegneria biomedica e della robotica, più che dalla digitalizzazione e dalla pervasività di internet.

La vita dell’AA Klara in negozio è contemplativa e i suoi ragionamenti, il suo sguardo sul mondo, sono anche i nostri. Gli occhi di Klara mettono a fuoco gli scenari e le persone seguendo come girasoli i giochi di luce. Intuiamo che il suo campo visivo frammenta in riquadri diversamente illuminati le immagini e che è in grado di processarle zoomando e de-zoomando istintivamente il soggetto al centro dell’obiettivo. Il volto di qualcuno appare segmentato in riquadri, ciascuno autonomo dall’altro, ciascuno mostrante una porzione di pelle quasi fosse possibile separarla dalle altre. Klara è in grado, così, d’interpretare nelle espressioni facciali umane anche gli impercettibili tremori, le minuscole crepe di fragilità che tentiamo di tenere a bada. La sua grande capacità empatica le vale l’ingresso nella famiglia di Josie, una ragazzina benestante affetta da un male non meglio specificato.

Josie va soggetta ad attacchi di fatica che la costringono a letto e che mettono a repentaglio la sua salute. Il suo malessere potrebbe essere dovuto al potenziamento cui è stata sottoposta dalla madre. Non è ben chiaro in cosa consista quest’ultimo: tutto ciò che sappiamo è che ai ragazzi potenziati si spalancano le porte delle opportunità e del successo nella vita. Chi non intraprende la procedura (per motivi personali o economici) viene scartato, resta fuori da ogni dinamica di studio e lavoro. Se consideriamo che potenziarsi può avere ripercussioni anche fatali sull’organismo dei ragazzini, vediamo emergere – dalla patina di ordinarietà che Ishiguro costruisce intorno a queste informazioni – una verità crudele: meglio rischiare la morte che la mediocrità. Meglio assurgere a un modello di umanità migliorato, in linea con le esigenze produttive del mondo, che diventare esubero.

L’idea dei potenziamenti (che nell’inglese lifted rende ancor più l’idea di un’ascesa al livello successivo, di una contrapposizione netta tra chi occupa i vertici e chi resta in basso) rende questa umanità migliorabile più vicina agli androidi, mentre l’umanità migliorata progetta androidi sempre più vicini all’uomo. Più che soffermarsi sullo scarto uomo-macchina, però, lo scrittore indaga, attraverso la prospettiva di un congegno progettato per pensare come una persona, lo scarto emotivo che ci rende profondamente umani.

Primo fra tutti, il bisogno di credere a qualcosa di più grande di noi. Klara, la cui batteria si ricarica a energia solare, venera il sole come fosse una divinità, affida all’astro le sue preghiere. Non comprende la sua natura di stella e, poiché la sua intelligenza (software?) è tutta basata sull’osservazione e sulla logica deduttiva, individua la dimora del sole in un capanno abbandonato dietro il quale esso cala al tramonto ogni sera. Il capanno diventa, per Klara, un luogo mistico, di culto, in cui i raggi (che l’AA chiama disegni) rappresentano la manifestazione benevola del dio, il suo donarsi come fonte inesauribile di nutrimento e speranza. La fede è un argomento centrale del romanzo, eppure l’unico personaggio che attivamente crede è la macchina. Per Klara, il potere benefico del sole si estende anche a tutta l’umanità ed è nel sole che riporrà le sue speranze di guarire Josie e di alleviare nei genitori di lei la paura del lutto.

Il dolore della perdita è un altro tema portante del libro. In alcuni punti, mi ha ricordato un episodio della seconda stagione di Black Mirror, intitolato Torna da me. In quell’episodio, il dolore di una donna per la perdita di suo marito si trasforma in una riflessione (alla maniera sempre inquietante della serie cult) sulla possibilità di replicare i nostri cari tramite la tecnologia. In questo stesso senso, molti hanno visto in Klara e il sole una continuazione ideale del discorso iniziato con il capolavoro dello scrittore, Non lasciarmi. Mentre l’AA guarda al sole con devota speranza, spostando la riflessione sulla perdita su un piano spirituale, eterno perché fuori dal tempo, gli uomini – nella loro finitezza e fragilità – si aggrappano alle macchine e al progresso per tenere a distanza la morte.

Eppure, parafrasando Klara, la vera unicità delle persone, la loro non replicabilità, non sta in un elenco di caratteristiche fisiche e comportamentali, né si misura con i potenziamenti, l’accesso alle tecnologie o al successo: sono i legami con gli altri, la stima dei conoscenti, l’affetto degli amici, l’amore dei genitori, dei compagni di vita, dei figli a renderci proprio chi siamo.

Klara e il sole è uscito in italiano per Einaudi, nella traduzione di Susanna Basso.

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