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Il vaccino in base al PIL: la vita perde il suo valore

Chiara Barbati di Chiara Barbati
20 Gennaio 2021
in Attualità
Tempo di lettura: 4 minuti
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Che i ricchi siano più importanti dei poveri è una convinzione vecchia quanto il mondo che viene facilmente a galla quando beni agognati ed essenziali come il vaccino scarseggiano. Accade spesso che a pochi privilegiati che hanno avuto la fortuna di trovarsi sui più alti gradini della scala sociale siano riservati numerosi benefici che la gente comune può solo immaginare. E che il mondo giri intorno al denaro è forse la più antica e la più scontata delle consapevolezze, perché una buona disponibilità economica può comprare qualunque cosa, anche la salute – ovviamente a spese della salute degli altri. È più o meno questo il concetto che ha inavvertitamente sostenuto Letizia Moratti quando ha tentato di richiedere una distribuzione del farmaco che tenesse conto anche del PIL delle regioni.

Da quando la corsa al vaccino anti-COVID è iniziata, sono state numerose le scorrettezze messe in pratica da pubblici e privati per il proprio tornaconto individuale che hanno ampiamente sorvolato sul vivere civile. Per ora, date le poche dosi a disposizione e la scarsa disponibilità di personale per le somministrazioni, il vaccino è destinato unicamente a chi ha un impiego in ambito sanitario, eppure sono state tante le richieste irregolari e sono state numerose le dosi destinate ad amici e parenti che non avrebbero dovuto beneficiarne, ma fa evidentemente parte dell’egoismo umano badare al proprio profitto e ignorare le conseguenze che il disinteresse sociale potrebbe comportare. Sulla base di queste consapevolezze, allora, non dovrebbe sorprendere troppo l’affermazione di Moratti.

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La neoassessora alla Sanità lombarda, infatti, ha chiesto che la distribuzione dell’agognato vaccino anti-COVID non avvenga solo attraverso criteri sanitari e demografici, ma che tenga conto anche dei fattori economici, come il prodotto interno lordo. L’indignazione scaturita dalla sua dichiarazione può rappresentare una speranza per la moralità del nostro Paese, ma il semplice fatto che questa idea sia venuta in mente a qualcuno dovrebbe far suonare qualche allarme. La richiesta è naturalmente venuta dalla regione che maggiormente beneficerebbe di una tale dinamica, ma non è nel disperato tentativo di salvaguardarsi che va cercata l’origine della proposta. Deriva invece, molto più probabilmente, dalla convinzione secondo cui chi produce di più, chi guadagna di più, valga di più. Dalla certezza che la vita dei più ricchi abbia maggiore valore di quella dei più poveri e, perché no, anche dalla stereotipata convinzione che chi non lavora e non guadagna decide di non farlo per scelta personale, per indole pigra, e certamente non per condizioni di avversa disuguaglianza.

La giustificazione ufficiale alla base della richiesta di Moratti non sembra avere nulla a che fare con il privilegio della ricchezza, ma sarebbe l’elevata produttività lombarda di cui, se in ripresa grazie alla vaccinazione intensiva, potrebbe beneficiare l’Italia intera. In questo modo, si è sommessamente tentato di rendere il diritto alla salute una variabile dipendente dall’economia e dalla produttività, spogliandolo dunque del significato che un diritto sociale comporta. Se la sanità in Italia è pubblica, essa deve essere accessibile a tutti. E se, come nel caso dei vaccini, non può essere garantita a ognuno nello stesso momento, i criteri di distribuzione devono tener conto della necessità, dell’urgenza e del benessere comune, e non possono certamente basarsi sul principio della ricchezza. Con la richiesta di Moratti sul vaccino messa nero su bianco tanto chiaramente e poi accusata di essere stata fraintesa e decontestualizzata dal maligno mondo del web, invece, si è provato ad affermare un approccio estremamente avverso ai principi della sanità pubblica. Molto più vicino al modello americano, si è voluto suggerire di destinare la migliore assistenza sanitaria ai migliori pagatori e, di conseguenza, di lasciare abbandonati a se stessi coloro che non possono sostenere il costo delle cure – o della prevenzione.

A dirla tutta, è stata proprio la privatizzazione della sanità pubblica a rivelare tutti i malfunzionamenti lombardi in periodo di pandemia. Quando la prima ondata è arrivata, sembrava che fosse quasi una fortuna che il virus si stesse concentrando in Lombardia, perché la sanità di altre regioni non avrebbe retto il colpo come stava facendo quella all’ombra del Pirellone, più forte e più pronta per strutture e risorse. Ma, alla fine, si può davvero dire che sia andata realmente così, oppure il fallimento della sanità lombarda rappresenta l’antitesi di una proposta tanto aberrante quanto incredibilmente insensata?

Alla base di dichiarazioni di questo tipo, di idee talmente ingiustificabili che ci sarebbe da chiedersi con quale coraggio vengano pubblicamente esposte, deve necessariamente esserci un’anomalia nel processo di attribuzione di valore alla vita. L’idea di collegarlo, anche non esclusivamente, alla produttività che l’individuo è in grado di sostenere non può essere solo figlia di una società spietatamente capitalistica: sarebbe troppo facile imputare la colpa di una richiesta del genere a un fattore apparentemente esterno al controllo del singolo. Bisognerebbe cercarlo, invece, in una malfunzionamento dell’umanità degli individui di fronte ai pericoli poiché si tratta evidentemente del prodotto di una società disumana che non riconosce reale valore alla vita, soprattutto a quella degli altri. Che, anzi, non riconosce valori diversi da quello del denaro e del puro e sfacciato egoismo.

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