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“Il Pianeta del Tesoro”, storia del classico Disney più sottovalutato di sempre

Alessandra Trifari di Alessandra Trifari
27 Novembre 2020
in Cinema
Tempo di lettura: 4 minuti
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Usciva in sala oggi, nel 2002, Treasure Planet – Il Pianeta del Tesoro, il 43° classico Disney, secondo il canone ufficiale, la cui storia rasenta a dir poco l’assurdità. Se provate a domandare ai vostri conoscenti cosa pensano del film, le risposte si potranno dividere in due versioni: non l’ho visto ed è spettacolare. Questo perché è considerato per antonomasia uno dei capolavori d’animazione più sottovalutati del mondo Disney, all’epoca un incredibile flop. Com’è possibile? Facendo un passo alla volta, proviamo a restituire all’opera un po’ della gloria ingiustamente negata, omaggiando quello che forse è uno dei classici più belli e profondi di tutti i tempi.

Diretto da Ron Clements e John Musker, Il Pianeta del Tesoro è liberamente tratto dal celebre romanzo L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, reinterpretato in chiave fantascientifica. Era il 1985 quando i due designers chiesero l’approvazione per lavorare al progetto, ottenuta solamente nel 1997, a causa della complessità e di altri lungometraggi in elaborazione. Dopo ben quattro anni di lavoro e la bellezza di più di mille artisti tra animatori, tecnici e musicisti, il film venne distribuito al cinema. Le critiche furono entusiaste. Il crollo, però, era dietro l’angolo e a fronte di un budget di 140 milioni di dollari, ne guadagnò appena 109.578.115. Cos’era successo? I motivi del flop purtroppo non troveranno mai una risposta univoca e, forse, il tutto fu il risultato di un insieme di fattori e scelte sbagliate.

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In primis, l’estrema vicinanza a titoli come Star Wars – L’attacco dei cloni o Harry Potter e la camera dei segreti, la scarsa propaganda al di fuori degli Stati Uniti o, ancora, il pessimo trailer che faceva sembrare il film un’accozzaglia di scene d’azione senza nesso. Si è arrivati addirittura a credere a un auto-boicottaggio della Disney, forse impaziente di abbandonare definitivamente l’animazione 2D in vista della computer grafica. Eppure, Il Pianeta del Tesoro non era affatto scontato. Desiderosi di creare qualcosa di nuovo restando comunque fedeli ai classici, Clements e Musker si rifecero a un romanzo iconico ambientandolo nello spazio, in un contesto steampunk, stile che vede un’evoluzione tecnologica estremamente futuristica ma in base all’immaginario ottocentesco. Anche la tecnica era in linea: basata sulla legge del 70/30, cioè 70% di animazione tradizionale e 30% di animazione 3D, scelta che rende ogni scena un vero e proprio spettacolo per gli occhi.

A cominciare dalla sequenza introduttiva. Il piccolo Jim Hawkins sta leggendo un libro olografico (a rimando dell’iniziale apertura del libro nei classici passati) che narra le vicende del famigerato Capitano Flint e del suo bottino dei mille mondi, l’insieme di tutte le ricchezze trafugate, nascoste sul leggendario Pianeta del Tesoro. Dodici anni dopo, Jim è un adolescente ribelle e problematico, turbato dall’abbandono improvviso di suo padre e con una madre profondamente sfiduciata. La sua vita è scossa dall’arrivo di un alieno morente, il quale gli consegna una sfera metallica e gli dice di proteggerla dai pirati in arrivo ma, soprattutto, dal cyborg. Fuggito con sua madre e l’astrofisico amico di famiglia, il Dr Doppler, il ragazzo scopre che quel globo è in realtà una mappa spaziale e indica la rotta verso il Pianeta del Tesoro. Eccolo, il suo possibile riscatto sociale. Si imbarcherà perciò sul vascello R.L.S. Legacy (in onore dell’autore del libro), comandato dal Capitano Amelia, la cui ciurma sembra però piuttosto sospetta. Specialmente il cuoco di bordo, John Silver, un cyborg.

A contraddistinguere Il Pianeta del Tesoro è senza dubbio il comparto tecnico. Animazione tradizionale e 3D convivono in armonia, con movimenti della camera degni di una reale regia e minuziosi background. Iconica la scena di transizione della stazione-porto di Montressor, interamente in CGI e per la quale ci vollero ben due anni di realizzazione. Lo stesso Silver è in tecnica mista, e il suo braccio e la sua gamba robotici furono talmente elogiati da diventare veri e propri modelli nei corsi di animazione digitale.

La sceneggiatura si rivela altrettanto sensazionale: adattare una storia così vecchia a uno stile futuristico e allo stesso tempo disneyano non era facile, eppure il risultato è un intreccio di avventura e azione con risvolti decisamente più adulti e profondi. I personaggi sono caratterizzati come raramente era avvenuto in precedenza, sfaccettati e spesso contraddittori. Jim, ad esempio, è brillante ma segnato dall’abbandono paterno, in lotta tra il credere di non valere nulla e la voglia di mettersi in gioco, mascherando le sue insicurezze con un carattere all’apparenza sfacciato e scaltro. E che dire di John Silver, uno dei migliori antagonisti di sempre, tanto che non si riesce quasi a definirlo come tale. Cinico, doppiogiochista, carismatico e allo stesso tempo l’unico in grado di vedere in Jim del potenziale. Tale conflitto d’interessi lo rende forse tra i personaggi Disney più complessi e caleidoscopici meglio scritti. Una menzione va anche al Capitano Amelia, donna forte e decisa, a capo di una nave (cosa non così frequente), la quale è un chiaro e simpatico riferimento a Spock di Star Trek. Tra le voci italiane, ricordiamo Luca Ward nelle vesti dell’inquietante alieno Scroop, e un sorprendente Maurizio Crozza come il robot B.E.N.

Se inizialmente il film fu pensato come il classico musical, alla fine si optò per una resa più seria, con musiche orchestrali e una sola canzone a supporto dell’evolversi degli eventi. Parliamo dell’emozionante I’m still here di John Rzeznik (frontman dei Goo Goo Dolls), in italiano Ci sono anch’io, cantata da Max Pezzali. Una sequenza iconica nella storia dell’intera animazione, le cui parole Ti potranno dire che non può esistere niente che non si tocca o si conta o si compra, perché chi è deserto non vuole che qualcosa fiorisca in te commuovono ancora oggi.

Sperando di avervi incuriosito, mettete da parte ogni pregiudizio e correte a recuperare questo classico. Una storia di crescita personale, con al centro la volontà di inseguire i sogni, di trovare la propria strada nella vita, nonostante le avversità. Dove fondamentale è il rapporto padre-figlio e la capacità di credere in se stessi, facendo tesoro delle esperienze e delle relazioni instaurate. Per poter scoprire, un giorno, che in fondo quella stella non è poi così lontana. E gridare al mondo ci sono anch’io.

 

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Alessandra Trifari

Classe 1991. Dottoressa in storia dell'arte e disegnatrice. Scrive da sempre e la sua mente viaggia tra arte, cinema, musica e parità di genere. Dei due sentieri, sceglierà sempre il meno battuto.

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