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Il Don Chisciotte di Terry Gilliam e l’insostenibile pesantezza della realtà

Vincenzo Villarosa di Vincenzo Villarosa
9 Novembre 2021
in Cinema
Tempo di lettura: 3 minuti
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Ci sono voluti quasi trent’anni affinché Terry Gilliam realizzasse L’uomo che uccise Don Chisciotte e il risultato è uno dei suoi film più visionari e “malincomici”. Una pellicola che è anche, a distanza di quattro secoli dalla nascita del capolavoro letterario di Miguel de Cervantes Saavedra e dell’immortale personaggio del cavaliere dalla trista figura, un’amara riflessione sullo stato dell’arte del cinema e dello scarto sempre più ampio e decisivo tra le esigenze della realtà produttiva e commerciale e la libertà dell’espressione artistica.

Il film ci racconta delle avventure cinematografiche ed esistenziali di Toby (interpretato dal bravo Adam Driver), un ex enfant prodige della regia che con il tempo è diventato famoso nel campo della pubblicità. Mentre gira in Spagna l’ennesimo spot, incalzato dal suo cinico produttore (Stellan Skarsgärd) e insidiato dall’esuberante moglie di quest’ultimo (Olga Kurylenko), si ritrova tra le mani la copia di un vecchio lungometraggio che ha realizzato da studente, quando è riuscito a convincere il calzolaio Javier (un magnifico Jonathan Pryce) e la bella Angelica (interpretata da Joana Ribeiro), incontrati in uno sperduto villaggio, a interpretare i personaggi di Don Chisciotte della Mancia e di Dulcinea del Toboso. Tra salti temporali e visioni personali, il giovane seguirà le tracce dell’antica illusione autoriale e ritroverà il vecchio interprete ormai convinto di essere il celebre personaggio letterario e la non più giovane donna, che negli ultimi anni è diventata una escort al servizio di un volgare uomo d’affari russo. L’anziano calzolaio, che vive ormai in uno stabile delirio interpretativo, rivedrà nel regista il suo scudiero Sancho Panza e lo costringerà a seguirlo. Tra avventure surreali e reali sofferenze fisiche e morali, Toby asseconderà fino alla fine i personaggi e la sgangherata narrazione epica da lui stesso creata, forse alla ricerca della perduta innocenza artistica e sentimentale.

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Dal 1989, quando Gilliam ha ideato il progetto del film, dopo il successo de Le avventure del Barone di Münchausen, sono passati diversi anni prima che diventasse produttivo agli inizi di questo millennio. Nel frattempo, il regista ha realizzato i suoi film più noti e bene accolti dalla critica e dal pubblico: La leggenda del re pescatore (1991), L’esercito delle dodici scimmie (1995) e Paura e delirio a Las Vegas (1998). Da subito, la realizzazione della pellicola è stata intralciata da impedimenti di ogni tipo, e soprattutto dall’abbandono, per motivi di salute, dell’attore protagonista, il francese Jean Rochefort, scomparso di recente. Il regista di Minneapolis, che negli anni Settanta del secolo scorso ha fatto parte in Inghilterra del mitico gruppo dei Monty Python, ha incontrato tante altre difficoltà per riuscire a riprendere in mano la produzione e la realizzazione di questa opera, con diversi cambiamenti rispetto al progetto originario.

Alla fine, possiamo affermare, che il vero Don Chisciotte è proprio Gilliam, che ha tentato per anni di fare un film sul cavaliere errante che non voleva arrendersi al potere del cambiamento storico e alla fine del suo mondo antico. L’autore ci è riuscito tra molteplici difficoltà, mosso dal desiderio di superare i limiti e la “pesantezza” della realtà con la quale ogni artista deve sempre misurarsi, comunque, per fare emergere la propria creatività e il personale sentimento del mondo. Per mostrare a se stesso e al suo pubblico, infine, la necessità dell’espressione artistica che tenta, e qualche volta ci riesce, di trovare spazio anche attraverso il valore della sconfitta e la sua rappresentazione.

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