Non è quasi mai facile parlare dei film di Sorrentino. Non lo è stato con La Grande Bellezza, impegnato, vincitore di un Oscar anche se, col senno di poi, per qualcuno sopravvalutato. Non lo è stato con È stata la mano di Dio, meno sorrentiniano nelle trovate stilistiche ma straordinariamente viscerale, privato. Non lo sarà, dunque, nemmeno con la sua ultima fatica, Parthenope, che ha dato da parlare e non poco. Il film, infatti, ha attuato un interessante dualismo di pensiero, scindendo pubblico e critica tra chi lo ritiene un capolavoro e chi l’ha bocciato senza se e senza ma. Non è che la verità starà, come spesso accade, nel mezzo? Andiamo con ordine poiché la faccenda è lunga.
Parthenope è un film del 2024 scritto e diretto da Paolo Sorrentino, presentato al Festival del cinema di Cannes, in concorso per la Palma d’oro. Narra le vicende di vita di una donna napoletana, Parthenope appunto, dalla sua nascita negli anni Cinquanta ai giorni odierni. Come avrete potuto intendere, il punto in questione non è ovviamente la trama – se di trama si può parlare – ma le molteplici chiavi di lettura e allegorie in un linguaggio, quello sorrentiniano, che non prevede quasi mai zone grigie: o lo si ama o lo si detesta. Come se il regista adorasse giocare di continuo con lo spettatore, tra disagio e sgomento, a volte in maniera effettivamente un po’ forzata, con il rischio di scadere in un didascalico che non sempre ha l’effetto sortito. E di diventare, diciamocelo dai, anche un po’ “paraculo”.
Parthenope è Napoli, Napoli è Parthenope e per Sorrentino, come per il mondo intero, si sa, non è cosa facile da raccontare. Forse non lo sarà mai. Intanto, il regista sceglie di evocare in chiave contemporanea il mito della sirena nelle Argonautiche orfiche, considerata per tradizione la fondatrice di Napoli. Quella delle tre sorelle (le altre due erano Leucosia e Ligea) che arrivava nel Golfo di Napoli. Non è un caso, quindi, che la protagonista nasca nell’acqua del mare, affiancata dal fratello che soffia sul pancione, metafora di Eolo.
Parthenope è Celeste Dalla Porta, un volto difficile da dimenticare per fascino, che si rivela davvero brava vista la poca esperienza nel campo cinematografico. I suoi occhi ti scavano dentro e, esattamente come la Napoli che incarna, è bellissima eppure pericolosa, seducente e letale, proprio come le sirene che con il loro canto seducevano e annientavano gli sfortunati marinai nella mitologia classica. È capace di ammaliare chiunque la incontri, tutti tranne il professore di Antropologia Devoto Marotta, con il quale sussiste un rapporto di stima reciproca, interpretato da un ottimo Silvio Orlando e personificazione della Napoli accademica, la Napoli intellettuale. E tranne lo scrittore John Cheever, un Gary Oldman forse un po’ sprecato per le sue potenzialità e le possibilità che avevano ma va bene lo stesso.
Luisa Ranieri è invece Greta Cool, attrice di origini napoletane ormai emigrata al Nord, evidente allusione all’attrice Sophia Loren e forse incarnazione dell’antimeridionalismo che, purtroppo, in molti hanno interiorizzato nel tempo. Tra gli altri interpreti, Daniele Rienzo è Raimondo, fratello della protagonista, Stefania Sandrelli nei panni di Parthenope adulta, una breve apparizione di Biagio Izzo, Dario Aita come l’amico Sandrino, Isabella Ferrari come Flora Malva, nota attrice ormai in decadenza sia fisica che psicologica.
Dal film traspare senza troppi giri di parole il tentativo (fallito) di Sorrentino di essere scelto per gli Oscar, pregno di quella pomposità sicuramente voluta in quanto riferita ai miti e alle tragedie greche. Laddove questo stile risultava più appassionato e sincero, ad esempio in È stata la mano di Dio, qui c’è un certo strafare, di tanto in tanto, che spinge a mal sopportare alcuni espedienti stilistici del regista. In primis, l’estrema retorica, specie nelle scene finali (Sorrentino sa bene e furbamente i tasti da toccare per conquistare il cuore napoletano). Inoltre – ditemi ciò che volete – spesso è davvero difficile mandar giù i dialoghi dei personaggi che parlano costantemente per aforismi, stucchevoli, didascalici, che mi hanno più volte fatto alzare gli occhi al cielo per il fastidio. Ma Sorrentino è anche questo.
Spicca la nobile intenzione della quasi totalità dei registi partenopei: rendere omaggio a Napoli, una città eclettica, pulsante, sovversiva, spesso considerata dagli italiani e dal mondo intero un universo a parte dal resto della penisola. Una città a cui è toccato come un sortilegio quello di risultare sublime e non pittoresca, spettacolare ma contaminata da una malattia che ne mangia un pezzettino alla volta. Lo vediamo nei vicoli stretti dentro ai quali si aggira Parthenope, una via crucis dalle luci caravaggesche, tra miseria e corruzione. Lo vediamo nelle scene (oscene) che disegnano il mondo camorristico in modo quasi sacro, fino al grottesco e dico solo “la grande fusione”, per evitare di spoilerare allo spettatore qualcosa che dev’essere “gustato” da sé.
Lo vediamo nella passione-ossessione del sangue di San Gennaro, scene in cui compare forse uno dei personaggi più viscidi e ripugnanti del film, il cardinale Tesorone, interpretato da Peppe Lanzetta, il quale ha fatto infuriare più di qualcuno per il suo rappresentare il potere religioso in modo tanto dissacrante, quasi blasfemo. Alle polemiche, Lanzetta ha risposto: «Credo che la Chiesa dovrebbe preoccuparsi di altro e dovrebbe dare le risposte che da quarant’anni non ha dato a Pietro Orlandi, tutto il resto è pornografia, nel senso che alla Chiesa che si sente dileggiata non ci crede più nessuno […]».
Sorrentino fa venire voglia di strangolarlo, a volte, ma allo stesso tempo non posso dire che il film non mi abbia lasciato qualcosa nel cuore. Forse perché napoletana, forse non lo so, Parthenope ha effettivamente indebolito le mie difese e spinta ad amare ancor di più la vita, le cose, nonostante l’orrore. Non è un film promosso a pieni voti, assolutamente, basti notare il distacco tra la prima parte e la seconda, la ridondanza e la volontà di trattare troppi argomenti senza sviscerarli nei modi e nei tempi giusti. Eppure lascia qualcosa di sé che non è la trama – ovvio – ma la fotografia come quadri in movimento, l’amore disperato, il sacro e il profano che si fondono, il folklore e la superstizione, le evidenti ispirazioni felliniane tanto care al regista. Come il celeberrimo figlio del professore, la scena più discussa del film. Qualcosa di potente, di innocente, di eccessivo, di stupendo e mostruoso. Qualcosa che è nascosto al resto del mondo e solo alcune menti possono essere in grado di comprendere, proteggere e al tempo stesso patire davvero.