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Gramsci: un pensatore libero, anche in prigione

Redazione di Redazione
28 Settembre 2022
in Rubriche
Tempo di lettura: 3 minuti
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Le note contenute in questo quaderno, come negli altri, sono state scritte a penna corrente, per segnare un rapido promemoria. Esse sono tutte da rivedere e controllare minutamente, perché contengono certamente inesattezze, falsi accostamenti, anacronismi. I Quaderni: un tesoro di saggezza e umiltà lasciato in dono a tutti noi. Questa stessa rubrica è inesatta, incompleta, frutto di sintesi necessariamente forzate e dei limiti intrinsechi del mio non essere un intellettuale. Manca e mancherà tutto l’immenso apporto di critica letteraria, che meriterebbe una sua rubrica. Manca e mancherà tutto l’impatto del Croce sul pensiero gramsciano, per la mia totale ignoranza in questa materia. Così come il Gramsci filosofo del materialismo marxista e quello storico del momento italiano, che andrebbero approfonditi a parte. Ma questi Quaderni sono un lascito che è magmatico, che ognuno di noi può cucirsi addosso perché Gramsci, pur scantonando nelle nevrosi tipiche di un prigioniero, tocca con dolcezza e stupore tutti i temi dell’umanità. Un testo che ha scritto per sentirsi vivo e che, in quest’ottica, rende più vivo ciascuno di noi.

Occorre distinguere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia alcunché di molto difficile per il fatto che essa è attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali e sistematici. Occorre pertanto dimostrare preliminarmente che tutti gli uomini sono filosofi, definendo i limiti e i caratteri di questa filosofia spontanea, propria di tutto il mondo, e cioè della filosofia che è contenuta: nel linguaggio stesso, nel senso comune e nel buon senso, nella religione popolare e nel folclore.

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Ogni manifestazione di attività intellettuale, anche minima, ci trasforma in filosofi. Il linguaggio, infatti, è l’insieme di nozioni e non solo di parole. Così come il senso comune implica in qualche modo di essere già parte di qualcosa “comune”. Religione popolare e folclore diventano filosofia in quanto ci inducono in una determinata prospettiva per guardare il mondo e viverlo.

Quello che differenzia gli uomini, quindi, non è tanto essere filosofi, perché tutti lo siamo, quanto la capacità di sviluppare una critica e una consapevolezza.

[…] è preferibile pensare senza averne consapevolezza critica, in modo disgregato e occasionale, cioè partecipare a una concezione del mondo imposta meccanicamente dall’ambiente esterno, e cioè da uno dei tanti gruppi sociali nei quali ognuno è automaticamente coinvolto fin dalla sua entrata nel mondo cosciente.

Una domanda retorica alla quale Gramsci risponde con un secco no.

[…] è preferibile elaborare la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente e quindi, in connessione con tale lavorio del nostro cervello, scegliere la propria sfera di attività, partecipare attivamente alla produzione della storia del mondo, essere guida di se stessi e non già accettare passivamente e supinamente dall’esterno l’impronta alla propria personalità.

È quel “fare libertà” che torna sempre tra le righe dei Quaderni e che è forse il più grande lascito politico di Gramsci. Fare libertà è essere consapevoli e critici della realtà, ma avere slancio per agire su di essa. Le condizioni esterne contano, ma fino a un certo punto, il Gramsci prigioniero è in una condizione di impotenza reale davanti al mondo, ma non lo è da un punto di vista intellettuale, meglio, filosofico: il contagio del male devasterà il suo corpo, persino la sua lucidità intellettuale verrà minata, ma non il suo spirito libero.

Il coraggio di cambiare equivale al coraggio di sbagliare, di mettere in discussione le cose e le persone, anche se stessi. Il conformismo non è sentirsi parte di un qualcosa, ma vivere supinamente questa appartenenza. La società del pensiero unico, sia esso quello derivante da un fascismo, sia quello imperante nella liquidità del consumismo attuale, crea un conformismo che non è “spirito di appartenenza”, ma servile accettazione della condizione in cui si vive.

Appartenere alla storia significa interrogarla e interrogarsi su cosa si può fare per cambiarla. Ognuno di noi, in modo diverso, vive la sua prigione. Sia essa di ruoli, di costrizioni, di professioni, di etichetta, ma quello che conta è sprigionare una forza filosofica durante le nostre specifiche “ore d’aria”. Quei momenti in cui riusciamo ad allontanarci da noi stessi per avvicinarci agli altri. Al loro dolore o alla loro vita: è quello l’attimo fuggente in cui i destini si parlano e nei quali non si è più soli, nei quali scompare il senso di inutilità e impotenza insito in una parte del cervello di ognuno di noi.

L’inizio dell’elaborazione critica è la coscienza di quello che è realmente, cioè un “conosci te stesso” come prodotto del processo storico finora svoltosi che ha lasciato in te stesso un’infinità di tracce accolte senza beneficio di inventario. Occorre fare inizialmente un tale inventario.

Contributo a cura di Luca Musella

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