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Gender gap: con la pandemia i nodi vengono al pettine

Chiara Barbati di Chiara Barbati
20 Maggio 2020
in Attualità
Tempo di lettura: 3 minuti
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Da quando la pandemia ha assorbito la totale attenzione di tutto il mondo, non è stato solo l’ambito sanitario a subirne le ripercussioni: numerosi problemi sono emersi in molti campi, da quello di diritti e libertà a quello economico. Sembrerebbe, allora, che la diffusione del virus abbia causato conseguenze inaspettate ma, in realtà, quello che l’emergenza ha fatto è stato far emergere ingiustizie e disuguaglianze, mai realmente colmate, acuendone la gravità.

Quello del gender gap, del divario economico e sociale tra uomini e donne, è un tema largamente affrontato e, nonostante ciò, scarsamente riconosciuto. Si sente parlare spesso di squilibri nel reddito e nelle responsabilità di tipo sociale e familiare, eppure sembra che il problema sia tanto sottovalutato quanto lontana l’intenzione di risolverlo. Da sempre affidate ai compiti di cura, le donne di tutto il mondo, anche quando economicamente e professionalmente indipendenti, non si sono mai liberate dal peso di quella invisible care che inevitabilmente si trovano sulle spalle. Che si tratti di gestione domestica, di prendere decisioni o di prendersi effettivamente cura degli altri membri della famiglia, alle donne sono affidati numerosi compiti anche quando il carico professionale è lo stesso dei loro partner maschili.

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Secondo le ultime statistiche, in situazioni di normalità, le donne impiegano il 21% della loro giornata in quel lavoro non retribuito per il quale gli uomini investono solo il 9%. Una tale differenza non ha riscontri solo nel tempo effettivo che viene dedicato a determinate attività di cura di bambini e anziani – e qualche volta anche degli stessi partner – e alla gestione dei lavori domestici, ma rappresenta un carico anche in termini di responsabilità. Non sorprende, allora, che il 40% delle donne scelga – o sia costretta a scegliere – impieghi di tipo part-time pur di mantenere un lavoro nonostante il carico di impegno non retribuito o che il 27% si licenzi dopo la nascita dei figli. Situazioni del genere spesso comportano condizioni di precarietà non equamente condivise con il partner o con l’altro genitore e riguardano, dunque, quasi sempre le madri e raramente i padri. È indubbio che il divario sia una conseguenza dell’impostazione culturale, ma è altrettanto vero che la condizione femminile non è adeguatamente supportata dalle leggi. E con l’emergenza sanitaria in atto il gap non può che allargarsi.

Durante l’isolamento della fase 1, e ancora di più durante la fase 2, il carico delle madri di famiglia e delle donne in generale è aumentato a dismisura. Soprattutto per quanto riguarda la cura dei figli, generalmente affidati alla scuola, ai nonni e ai baby-sitter, in molte famiglie a dover rinunciare agli impegni lavorativi per prendersene cura sono spesso state le donne, quelle che hanno, per i motivi sopracitati, impieghi meno stabili a cui è più facile rinunciare. A questo fattore si aggiunge il dislivello tra i congedi parentali di cui dispongono uomini e donne – fino a 5 mesi per le madri, 7 giorni per i padri – costringendo le lavoratrici a usufruirne molto di più e ad accantonare le aspirazioni in ambito professionale – nonché ad apparire meno assumibili agli occhi dei datori di lavoro.

A questi dati evidentemente squilibrati si aggiunge il fatto che la maggior parte delle professioni che restano in stallo con la fase 2 sono quelle tipicamente femminili, nonché scarsamente tutelate, come baby-sitter, colf e badanti. Infatti, dei lavoratori che hanno ripreso la normale attività a partire dal 4 maggio, il 72% è composto da uomini. E nonostante le donne siano dunque le più coinvolte a livello economico tanto quanto a livello sociale nelle disastrose conseguenze della pandemia, non sono loro a prendere le decisioni. È questo l’appello mosso da oltre 50mila firmatarie che reclamano maggiore parità e rappresentanza nei luoghi decisionali, soprattutto perché testimoni di problematiche in genere estranee agli uomini.

Divenuto ormai virale, l’hashtag #datecivoce richiede maggiori presenze femminili nelle task force ed è risuonato a livello internazionale attirando l’attenzione delle Nazioni Unite, che hanno dichiarato di appoggiare le donne italiane e la loro richiesta di un ruolo più decisivo nella risposta alla pandemia. Secondo il movimento, se le italiane non sono ben rappresentate al governo, allora è impossibile che le difficoltà economiche e sociali di cui sono inevitabili protagoniste siano notate. Nonostante decenni di diritti reclamati, tutte quelle sfumature culturali che costituiscono l’invalicabile gender gap non sono mai state realmente cancellate. E il merito – se così si può chiamare – dell’emergenza coronavirus non è stato quello di creare danni che prima non c’erano, ma di portare al pettine tutti i nodi di una società incompleta e noncurante, soprattutto quando si parla di diritti e uguaglianza.

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