La scorsa settimana è stata teatro di un’importantissima conquista per la comunità LGBTQ+. Dopo anni di dure battaglie e di vergognose ingiustizie, è arrivato l’annuncio che i farmaci ormonali che consentono la transizione di genere saranno gratuiti su tutto il territorio nazionale. Già in precedenza, alcune province e regioni avevano offerto questo fondamentale servizio per il rispetto dei diritti delle persone transgender, ma sembrava ancora lontana la strada per estendere tale opportunità in tutta l’Italia. Invece, in seguito all’ufficialità dell’Emilia-Romagna, l’Aifa ha reso l’iniziativa valida su tutto il suolo italiano a partire dal primo ottobre.
La decisione rappresenta certamente un successo per una fetta di popolazione spesso ignorata ed è indubbio che contribuirà alla normalizzazione e al riconoscimento di diritti finora inesistenti. D’ora in poi, i farmaci saranno a carico del Servizio Sanitario Nazionale a disposizione sia di chi intende sottoporsi alle operazioni di transizione, sia di chi preferisce fermarsi alla terapia ormonale. I medicinali in questione sono difficilmente reperibili e molto costosi, motivo per cui la decisione si rivelerà fondamentale per la salute e il benessere di chi non poteva sostenerne i costi e anche e soprattutto per la dignità finalmente acquisita grazie alla legittimazione che tale riconoscimento garantisce.
A parte i vantaggi pratici, il provvedimento avrà delle conseguenze anche a livello sociale che potrebbero fare la differenza. La comunità transgender è quella a cui sono riservati meno diritti, quella meno compresa dalla società e quella probabilmente più in difficoltà. I problemi che un uomo o una donna transgender devono affrontare ogni giorno vanno dal non poter usare il proprio nome – quello che corrisponde alla propria identità – in occasioni ufficiali, al non poter usufruire del giusto bagno pubblico, fino alle inaccettabili discriminazioni sul posto di lavoro. La persistenza di atteggiamenti vessatori dipende certamente dalla mancanza di una legge specifica contro l’omotransfobia, ma non solo. È l’invisibilità istituzionale in cui vive questa comunità che contribuisce ogni giorno a non educare la società alla tolleranza.
La decisione di rendere gratuiti i farmaci, allora, potrà avere effetti molto più grandi di quelli sperati, perché l’attenzione delle istituzioni ai problemi delle persone transgender aiuterà a normalizzare la loro esistenza e il loro diritto di essere se stesse. Se le reazioni dell’italiano medio alla notizia sono state quelle di giudicare tale rivoluzione uno spreco di risorse che andrebbero devolute ai problemi più gravi di cui l’Italia è sempre piena, accade perché i bisogni di una persona che non si identifica con il sesso o con il genere che la società le ha assegnato non sono ancora percepite come un diritto legittimo – quello di far coincidere il proprio corpo, la percezione di sé e la propria identità – ma sono ancora viste come una scelta patologica. Ed è proprio qui che si inseriscono, invece, i punti deboli del provvedimento.
L’iniziativa non è infatti perfetta perché, per scongiurare l’abuso di farmaci ormonali in contesti illeciti – come quello sportivo, per aumentare le prestazioni –, i medicinali saranno gratuiti solo per chi ha ricevuto la diagnosi di disforia di genere. Purtroppo, però, non tutto il territorio italiano ha a disposizione le equipe mediche necessarie a questo tipo di diagnosi. Ma il punto non è davvero – e non solo – questo. Il bisogno di una diagnosi medica per il riconoscimento della propria identità resta un’impunita ingiustizia che lede i diritti e la dignità di persone ancora considerate come malate o affette da qualche patologia. Questa considerazione risulta evidente dall’iter al quale deve rifarsi una persona transessuale per accedere ai farmaci, per sposarsi, o semplicemente per essere riconosciuta giuridicamente. Ciò a cui deve sottoporsi è una vera e propria diagnosi, condotta da parte di un gruppo di specialisti: psichiatri, psicologi, neurologi, comportamentisti e consulenti di ogni genere. E dopo attente analisi della durata di circa sei mesi che certifichino la disforia, è necessaria anche una sentenza giuridica prima di poter effettivamente procedere alla transizione.
È certamente difficile comprendere il malessere fisico e psicologico di chi si ritrova a vivere in un corpo che non riconosce come proprio. La carne che abitiamo è, in effetti, una parte fondamentale della nostra identità. È la nostra prima casa, quella che ospita la mente, che ci permette di sentire, di provare le sensazioni di cui la vita è fatta. È ciò che ci rende vivi e ha un valore inestimabile dal momento della nascita fino a quello della morte. Il corpo c’è anche quando la testa manca, funziona anche quando non ce ne accorgiamo o non gli ordiniamo di farlo. Persino nelle culture e nelle religioni per cui la vita ruota intorno all’anima, la centralità del corpo è indiscutibile, evidente dalla cura che vi si riserva e dalla consuetudine di utilizzarlo come mezzo per controllare l’agire umano. Insomma, il corpo fa indissolubilmente parte di noi. Ma se un individuo si ritrova ad abitarne uno che non gli appartiene, che non corrisponde alla sua identità, esso rischia di diventare una prigione.
Non stiamo facendo riferimento a quei fantascientifici scambi di cervelli dei film in cui la coscienza dei protagonisti si trasferisce momentaneamente nel corpo di qualcun altro. Ciò di cui parliamo è un fenomeno reale che affligge 400mila italiani. La chiamano disforia di genere perché per anni è stata considerata una malattia. Il termine ha sostituito il vecchio disturbo a causa della stigmatizzazione che esso comportava, ma con il nuovo appellativo non è cambiato molto, essendo un termine medico che implica un malessere patologico. Ancora lontani – almeno formalmente – dal non definirli ammalati, ciò che affligge le persone transgender è un incubo infinito.
Non è neanche immaginabile cosa possa significare svegliarsi ogni mattina in un corpo indesiderato, che non rispecchi l’identità, un corpo anche un po’ sconosciuto da trascinare come un peso e, mentre si combattono le proprie battaglie interiori, essere costantemente discriminati, incompresi, non accettati. I progressi da fare, in questo senso, sono ancora molti, poiché alle iniziative istituzionali deve seguire l’evoluzione delle menti e di un apparato culturale che li considera malati. L’unica vera patologia riguarda, infatti, la società di cui sono vittime le persone transgender, una società malata, fatta di esseri umani tutt’altro che semplici, uguali tra loro o divisi in rassicuranti dicotomie del bianco e del nero, che normalizzano le proprie diversità e si rifiutano di accettare quelle degli altri.