Non è stato facile digerire la notizia della morte di David Lynch. Quando è successo, per un enfisema polmonare, lo scorso 16 gennaio, è stato come se qualcosa si fosse spezzato, come se fossimo di colpo rimasti sospesi nel tempo. Sì, perché Lynch non era soltanto un regista. Era un esploratore di sensazioni, un indagatore di sogni e molteplici realtà, che aveva scelto il cinema come mezzo di espressione e si era reso maestro di pellicole che hanno saputo assumere le forme più strane, caratterizzate da viaggi onirici e ardite metafore.
Quattro volte candidato al Premio Oscar e vincitore della statuetta alla carriera nel 2020, con Lynch è andato via uno dei capisaldi del cinema sperimentale contemporaneo, meritevole di averlo rivoluzionato – dal commovente The Elephant Man all’ipnotico Mulholland Drive – ma anche, cosa non da poco, meritevole di aver fatto lo stesso per la televisione, con la prima vera serie tv d’autore: I segreti di Twin Peaks.
Classe 1946, casetta nel Montana e infanzia serena, il giovane David sogna di diventare un artista, un pittore, e per questo si iscrive alla Scuola di Belle Arti prima di Boston, poi di Philadelphia, dove ad attrarlo, però, non sono i pennelli, bensì la macchina da presa. Ed ecco le sue prime avventure da cineasta sperimentale, con cortometraggi all’apparenza strani ma che evidenziano già i suoi stilemi registici, tra tutti, l’attenzione verso l’inconscio.
È il 1977, Lynch si è ormai trasferito a Los Angeles e dorme persino sul set pur di finanziare e terminare il suo primo lungometraggio: Eraserhead – La mente che cancella, probabilmente partorito sotto acidi. Peggio di un trip allucinogeno, il film segue le assurde vicende di Henry Spencer nei panni di Jack e del suo disturbante rapporto con la paternità (il neonato-mostro e la signora del termosifone, no, la mente non li cancellerà affatto). La visione di Eraserhead è forse l’incontro più intimo che si possa avere con il regista, un connubio di fascino e ribrezzo, labirinti di incubi nei quali è facile perdersi, tanto che pare che Stanley Kubrick lo proiettasse sul set di Shining per alimentare l’inquietudine negli attori. Oggi è conservato all’interno del National Film Registry come film culturalmente significativo ma all’epoca, ovviamente, non piacque a nessuno. Tranne che a Mel Brooks, che lo ingaggia per dirigere un film sulla storia di Joseph Merrick, uomo affetto dalla sindrome di Proteo, vissuto nell’Inghilterra vittoriana. Nasce quindi The Elephant Man (1980), straziante, potente, feroce. Lo stendardo del diverso che si fa strada in una società spietata. Sarà la magia del bianco e nero o la nobile interpretazione di John Hurt, il film riceve ben otto nomination agli Oscar e l’attenzione di Hollywood, finalmente.
Ma il fallimento è dietro l’angolo. Lynch accetta di adattare uno dei più celebri romanzi di fantascienza, Dune, di Frank Herbert. L’opera va incontro a una serie di sfortunati eventi – il budget (sfidiamo Villeneuve a rifarla senza la CGI di oggi), i numerosi tagli imposti – e il risultato è un fiasco. «Fallire in qualcosa», ha detto Lynch in un’intervista, «in un certo senso, ha un lato positivo perché dopo non puoi far altro che migliorare e questo dà un senso di libertà».
Da qui in poi, il regista concentrerà spesso la propria filmografia su un soggetto preciso, quello di vita americana, patinata e scintillante ma che, dietro i luccichii, va lentamente a imputridirsi. Velluto Blu prende il titolo dall’omonima canzone di Bobby Vinton e porta in scena due star fondamentali per la vita e la carriera di Lynch: Kyle MacLachlan, suo feticcio, e Isabella Rossellini, attrice e compagna. I bellissimi Nicolas Cage e Laura Dern sono invece protagonisti di Cuore Selvaggio, nel 1990, tanto romantico e avventuroso quanto violento e controverso ma comunque vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes.
Il 1990, però, è un anno speciale: è allora che la TV cambierà per sempre. Una sola domanda echeggia, un tormentone mondiale: chi ha ucciso Laura Palmer? I segreti di Twin Peaks è la serie che consacra Lynch, in un’epoca in cui il concetto di serialità che intendiamo oggi non esiste ancora. Ideata con lo sceneggiatore Mark Frost e con protagonista di nuovo Kyle MacLachlan, l’opera è un mix di thriller, noir e soap opera e incolla milioni di persone allo schermo, stregate dall’immagine del corpo cereo di Laura Palmer (Sheryl Lee) avvolto nella plastica. Esplora temi nuovi, controversi, quali il trauma, la perdita dell’innocenza, la malvagità umana, il doppio, l’incommensurabilità della fine, mettendo in dubbio ogni percezione umana della realtà. Penso che ognuno di noi abbia ancora gli incubi grazie all’iconica scena della stanza rossa. La serie viene poi ripresa nel 2017 per una terza stagione, meno rinomata ma comunque gradita. Ad ogni modo, il successo è tale che nel 1992 Lynch ne fa un lungometraggio: Fuoco cammina con me, prequel della serie e con nientemeno che David Bowie nel ruolo dell’agente Phillip Jeffries.
Dopo Strade Perdute, nel 1997, noir moderno considerato tra le sue opere più indecifrabili, il maestro decide di cimentarsi in una storia vera e la chiama proprio così. Una storia vera è il racconto del settantatreenne Alvin Straight, interpretato da Richard Farnsworth, che attraversa l’America a bordo del proprio tosaerba. Uno dei rari momenti in cui Lynch si lascia persuadere dalla luce, ci regala un lieto fine e la percezione che, dopotutto, il mondo non sia poi così male.
Ma è solo nel 2001 che partorisce l’ennesimo, unico, iconico capolavoro della sua filmografia: Mulholland Drive. Hollywood con l’H maiuscola. Il nome di una nota strada di Los Angeles dove ho completamente lasciato il mio cuore, tra quei tornanti, gli stessi dove avviene l’incidente che cambierà per sempre la vita delle due protagoniste, interpretate dalle straordinarie Naomi Watts e Laura Harring. Ancora oggi l’opera più discussa della sua carriera, Mulholland Drive rappresenta la totale immersione nel cinema lynchiano, fatto di deliri e misteri. Una narrazione sospesa tra sogno e realtà in una Hollywood oscura, che tuttora provoca una forte scissione nel grande pubblico, frustrato dalle astruse interpretazioni. Ma Lynch non poteva essere più chiaro quando ha detto che è certo appagante sapere come sono andati i fatti ma altrettanto interessanti sono le cose astratte e il potere del cinema di raccontare le cose astratte è enorme. Il film gli è valso una terza nomination agli Oscar, seguito dal Leone d’Oro alla carriera nel 2006, al Festival di Venezia, dove presenta il suo ultimo film, Inland Empire – L’impero della mente. Il primo girato interamente in digitale, ennesima critica al mondo dello spettacolo e analisi del doppio. Tre ore di assoluta perdizione.
Ed eccoci alla fine della storia, all’epilogo di un viaggio. Al suo saluto sullo schermo, nel film di Spielberg The Fabelmans, dove interpreta il regista John Ford. Un piccolo ma notevole cameo che ci ricorda quanto fosse camaleontico e mai banale. Cineasta talmente significativo da aver fatto coniare il termine lynchiano per indicare proprio qualcosa di oscuro, disturbante, surreale e onirico. Perché in trent’anni di carriera, Lynch è stato in grado di afferrare l’eterno, dirigendo alcuni dei più perturbanti, commoventi e provocatori film del cinema statunitense. Labirinti di incubi, passioni e paranoie, ci ha insegnato che la bellezza della vita risiede spesso nel mistero e che le cose a volte vanno vissute più che spiegate.
A chi gli ha sempre rimproverato la mancanza di risposte, di spiegazioni, ha detto: «Non so perché le persone si aspettino che l’arte abbia senso. Accettano il fatto che la vita non abbia senso». Ecco perché, anche se non c’è più, David Lynch continuerà a esserci molto più di quanto crediamo. Che sia un banco di nebbia, un uomo deforme, una tenda rossa o uno sguardo di donna, ricordate sempre che è la ciambella che va tenuta d’occhio, non il buco. Questo è lo spettacolo vero.