Abbiamo recentemente recensito, per questo giornale, Enūma Eliś di Mimmo Grasso, edito da IL LABORATORIO/le edizioni in tandem con Keiron Network di Bolzano. Per gli stessi tipi esce un altro libro di questo autore, tirato in quaranta esemplari.
Come mai un libro così importante in pochissime copie? Va detto che, in un’Italia in cui si stampano circa 70mila volumi l’anno, compresi quelli scolastici, dove un titolo è merce che dura al massimo sei mesi prima del macero – per cui la qualità tende verso il basso – e dove moltissimi scrivono senza comprare mai un libro, Grasso ha scelto di essere poeta a tiratura limitata (emunctis naribus, per dirla con Orazio) basculante, come narra nell’autobiografia, tra Pitagora (riferimento alla sua origine ionico-calabrese) e Virgilio (i Campi Flegrei, dove vive appartato).
Si tratta di un libro di rara bellezza e cura, De Somniis (Sui sogni), con acqueforti di Mario Persico. L’incisione di copertina, qui proposta, rappresenta una sintesi della dinamica sogno-ragione. In questo confronto i sogni vincono sempre sia perché sono più realisti del re sia perché barano. Il volume reca, altresì, contributi del filosofo Dario Giugliano, La tentazione della solitudine, e dello psicanalista Antonio Vitolo, Oneiromakìa (battaglia dei sogni in sogno). In esso il poeta si insinua in tre famosi sogni di Cartesio e ne fa un resoconto evidenziando, come pochi sanno, che il padre del razionalismo incontrò il Cogito quando, febbricitante e delirante, era un giovane militare sulle rive del Danubio.
Sognare i sogni di un altro, come fa Grasso, ha attirato l’attenzione fin dall’antichità, dal De Divinatione per somnum di Aristotele fino a Borges e alle ricerche sulla mappatura della mente avviate da Giulio Tononi. Per mente si intende qui l’attività che collega i dati dell’esperienza e del vissuto. Ci sono sogni che tutti facciamo, che hanno delle costanti e che funzionano come un calco, ovvero hanno elementi calcografici, una matrice sulla quale ciascuno può stampare i sogni che ricorda, quelli fondamentali per la propria autocoscienza. Jung li chiamò archetipi.
Qui si tratta di una mente particolare, quella di Cartesio, nella quale Grasso riesce a insinuarsi col metodo della trance vigile e della poesia, vale a dire con lo strumento cognitivo delle profondità. Una volta entrato nello stampo Cartesio, il poeta ne percorre i labirinti come fossero propri. Un solo particolare fa capire che si tratta di due persone diverse: Cartesio non ha al polso un orologio.
Il testo è spiraliforme, procede per accumuli e digressioni, come avviene sognando, senza causa-effetto o principio di non contraddizione, fra chincaglierie da Wunderkammer (camera delle meraviglie) e ampi spazi aperti che fanno da ponte tra una situazione e un’altra. I momenti onirici sono segnalati dall’uso di un nuovo segno di interpunzione ≈, che in matematica sta per approssimativamente uguale a. La carica emotiva è possente, ha una metrica incalzante, ossessiva, senza respiro, neuromotoria, trasforma ascisse e ordinate in ali di farfalle, un otto orizzontale, simbolo dell’infinito, che lascia sulle dita scaglie di luce.
Ovviamente, c’è anche un gioco di scambio per cui al francese vengono attribuiti pensieri e moti del cuore che appartengono al poeta, alla sua capacità di decodificare il senso mediante immagini che, come sostiene Cartesio nelle Cogitationes privatae, proprio grazie ai poeti magis elucent (splendono maggiormente). Ed ecco che, nella palude dell’occipite di Cartesio, Grasso incontra l’ibis del regno dei morti egizio trasformato con un lapsus in sibi mentre Ausonio, l’autore della tarda latinità citato dal francese nel suo stato stuporoso (quod vitae sectabor iter? – quale cammino della vita seguirò?) nasconde un ausus mentre sectare rinvia agli studi di anatomia e di robotica del filosofo nonché alla fisiografica vista dal poeta come scrittura di Dio.
L’inconscio per Grasso funziona come insiemi infiniti matematici (Matte Blanco), autoreplicanti come i frattali ed è per suo tramite che si acquisiscono capacità trasformazionali (Sergio Piro), con cambio di personalità. In psicanalisi ciò ha come obiettivo la terapia, in poesia ha una funzione creativa. Folgorante la lettura di quando il francese incontra sotto il portico di una chiesa (una stoà?), prima di sostare davanti all’altare dei paradigmi, un uomo vestito di nero (Crisippo?) e che reca in mano un melone straniero. Si tratta, secondo la lettura del poeta, di Galileo in quanto nome e cognome di quell’uomo formano un cerchio: Galileo Galilei, ed è probabilmente lo scienziato italiano lo sconosciuto che, qui-là, appare e scompare nel sogno o, forse, Parmenide perché quel melone straniero si presenta come l’essere del presocratico, eukukléos atremès hetor, incentrato, indomito cuore, avvertito come emblema della solitudine da Cartesio ma che in Grasso è la sphera, l’orbe terracqueo, l’est et non di Pitagora e del sognante.
L’intreccio è pertanto il seguente: Cartesio Cogita. In tre sogni ha la conferma, per strade non razionali, della sua “scoperta”. Durante l’attività onirica, Cartesio, dormiente, secondo la relazione che ne fece il suo biografo, Baillet, analizza i suoi sogni. Analizzare i sogni sognando è già un’area di indagine. Grasso-Cartesio li risogna facendo “ruotare” l’insieme attorno all’est et non. Si ha il sospetto, a questo punto, che sia proprio Grasso lo sconosciuto che, come ombra e sectator, gironzola negli ambulacri della mente cartesiana.
Nel capitolo Autodafè l’autore informa il lettore sulle circostanze che hanno dato vita al testo. Il 19 novembre del 2010, per un’involontaria sincronia, ricordò che nello stesso giorno del 1618 Cartesio fece sogni importanti, fondamentali per il pensiero europeo. Pieno di dubbio metodico, il francese cercava il fondamento della verità e mise in conto anche di poter essere strumento di un ginn funesto, un demone che lo avrebbe potuto manovrare come una marionetta. La “scoperta mirabile” fu il pensare di pensare come garanzia d’esistere e ne rimase entusiasmato al punto che programmò un pellegrinaggio (era stato educato dai gesuiti) alla Madonna di Loreto. Questa agitazione si trasmise emotivamente al poeta che volle andare a fondo, ispezionare gli spifferi delle allucinazioni cartesiane, tastarne la struttura, indagarne i simboli, capirne le costanti. Ciò sarebbe stato possibile solo entrando nella parte, riviverla come doppione.
Il poeta diventa dunque Cartesio proponendo, sulla scia di Marie Louise Von Franz, al mondo analitico una modalità ermeneutica originale-originaria e a quello della poesia un exemplum che rimarrà nella storia. Se il simile col simile si cura, il sogno, e ciò che esso sognifica significando, si cura omeopaticamente con la poesia.
Qualcuno ha scritto che se Guglielmo da Baskerville avesse trovato questo libro nell’abbazia dove si svolge la vicenda de Il nome della rosa, lo avrebbe rubato. E, infatti, De Somniis richiama i libri medievali con miniature e testo. Nel volume, allestito certosinamente, ogni dettaglio è importante, comunica qualcosa in più, significante, a cominciare dalla carta (l’introvabile Alcantara, dell’etnea Sicars) fino al carattere scelto, il bembo, utilizzato dal celeberrimo Aldo Manuzio per stampare Il Sogno di Polifilo.
Contributo a cura di Antonio Sgambati