Era il 30 luglio 2018 e centouno persone tra uomini, donne e bambini, venivano consegnate alla Guardia costiera libica da parte del comandante di una nave privata italiana, la Asso28. Era il 30 luglio 2018 e a quel centinaio di persone veniva negata ogni speranza di vita migliore. Era il 30 luglio 2018 e per l’ennesima volta, da anni, venivano violate norme nazionali e internazionali sulla pelle dei più deboli. Era l’ennesima volta, eppure proprio a proposito di quella, il Tribunale di Napoli ha dichiarato, con una sentenza di qualche giorno fa, che la Libia non può essere considerata un porto sicuro, condannando il comandante della Asso28 a un anno di reclusione.
Al momento dei fatti, erano molte le circostanze sospette. La Asso28 è una nave di servizio della compagnia Augusta che opera a sostegno della piattaforma petrolifera al largo della Libia. Battendo bandiera tricolore, in caso di soccorso di migranti, questi si trovano sotto la giurisdizione italiana. All’epoca, tuttavia, non fu effettuata alcuna comunicazione dell’avvenuto intervento alla centrale soccorsi di Roma né, inizialmente, a quella di Tripoli, allertata soltanto quando l’imbarcazione si trovava già nelle acque territoriali libiche. Allora, Open Arms registrò le comunicazioni intervenute tra le parti, poi diffuse dal quotidiano Avvenire.
La Procura di Napoli percepì fin da subito che c’era qualcosa di allarmante: una certa vaghezza nella risposta, il tentativo di non dare seguito alla domanda su chi avesse fornito indicazioni sulla posizione del gommone, infine il riferimento alla piattaforma Mellitah Oli & Gas e la dichiarazione di aver ricevuto l’ordine di riportare i naufraghi a Tripoli dall’istituzione per cui la nave lavorava. Eni, dal canto suo, nega qualsiasi collegamento fin dal giorno dei fatti e, anzi, fa riferimento a un’operazione gestita interamente dalla Guardia costiera libica che impose il trasferimento. Da quanto emerso, pare che a bordo ci fosse un rappresentante proprio di quest’ultima, mai identificato nonostante le norme in materia lo impongano per chiunque salga su un’imbarcazione. Non è stato possibile, però, accertare la sua presenza durante il processo svoltosi in rito abbreviato. Per quanto riguarda la sentenza, le motivazioni saranno depositate entro tre mesi e renderanno la vicenda ancora più chiara. Intanto, il comandante e il rappresentante della compagnia di navigazione sono stati assolti dall’accusa di abuso d’ufficio.
Provando a ricostruire quanto avvenuto, si tratta dell’ennesima conferma dei metodi seguiti dai libici, una conferma affatto necessaria. Eppure, quella di Napoli è la prima sentenza di questo tipo in Europa ed è per tale motivo che è stata definita da più parti una pronuncia apripista, che consente, secondo alcuni, anche richieste di risarcimento del danno da parte dei naufraghi coinvolti. Un’affermazione che fa quasi sorridere per l’ingenuità con cui viene fatta, come se ci si dimenticasse di quali persone sono coinvolte: se fossero ancora vive, infatti, sarebbero nell’inferno delle prigioni libiche e la loro vita destinata a essere stroncata per sempre.
Sono note a tutti le torture e le condizioni inumane dei centri di detenzione di Tripoli. Amnesty International e le Nazioni Unite ripetono da anni che non è possibile essere complici, in uno Stato democratico, di simili atrocità. Eppure, solo pochi mesi fa, per l’ennesima volta, l’Italia, con una maggioranza in Parlamento ampissima, ha confermato i finanziamenti alla Guardia costiera libica. I finanziamenti dei torturatori, degli stupratori, degli assassini che noi stessi aiutiamo ad affermarsi nella loro crudeltà.
Nel cristallizzare l’atto di indagine oramai tre anni fa, la Procura di Napoli metteva in evidenza violazioni gravi e rilevanti di norme nazionali e internazionali, dal Testo Unico sull’immigrazione in vigore in Italia alla Convenzione di Ginevra sui diritti dell’uomo. Metteva nero su bianco ciò che tutti sanno da tempo: la Libia non è un porto sicuro, una verità atroce che continuiamo a nascondere. Ciononostante, non si può semplicemente gioire per la sentenza che ha coinvolto la Asso28. Sarebbe da ingenui, infatti, non rendersi conto che c’è un enorme paradosso tra ciò che i giudici hanno stabilito in questa occasione e ciò che il governo e il Parlamento italiani avallano quotidianamente.
La nostra unica speranza è davvero ridurre tutto a un solo capro espiatorio per l’ennesimo respingimento di massa? Essere soddisfatti perché il comandante di una nave che non si è coordinata con chi di dovere per un soccorso è punito con un anno di reclusione?
Se davvero le nostre autorità avessero a cuore le sorti di uomini, donne e bambini che tentano di arrivare in Europa, andrebbero a fondo nella ricerca della verità e non si accontenterebbero di allontanare i migranti dalle proprie coste con qualsiasi mezzo disumano, parlando poi di tragedia quando centinaia di persone muoiono inghiottite dal mare. Non metterebbero i propri interessi economici davanti all’umanità e ai diritti fondamentali né si lascerebbero ammantare dai racconti delle autorità libiche. Ma così non è, e fino ad allora ci sarà poco di cui gioire.